Corriere della Sera, 23 novembre 2015
Gli europei smarriti di fronte alla violenza
Ci sono molti modi con i quali una società può consolarsi dei mali che le piombano addosso. Uno dei più ovvi è la mistificazione: cambiare il segno di ciò che le è capitato, piegarne il significato specialmente idealizzandone alcuni tratti, accentuandone altri, sorvolando su altri ancora. Un’operazione nella quale, come si capisce, una parte decisiva oggi l’hanno i media. I quali diventano specchio ma anche fabbricanti della coscienza sociale.
È quanto è accaduto a proposito della strage di Parigi. Il senso del lutto è stato sublimato in un autocompiacimento al limite di un’insulsa arroganza culturale. L’obiettivo dei terroristi – uccidere il maggior numero possibile di persone: pertanto colpire nei luoghi pubblici (e dove se no?) – è stato trasformato in un attacco «al nostro modo di vivere», alla «nostra possibilità di uscire la sera per andare a un concerto, a un ristorante, a divertirci»: come se queste medesime cose non facciano parte della vita quotidiana di quasi tutto il mondo, Paesi islamici inclusi (e infatti in tutto il mondo, dall’Iraq alle Filippine, il terrorismo predilige esattamente gli stessi bersagli che ha colpito a Parigi). È seguito l’impegno roboante a base di «non ci farete cambiare le nostre abitudini»: nel momento stesso in cui nelle comunicazioni, per esempio, si restauravano barriere e controlli abbandonati da anni; in cui perfino un viaggio in treno stava diventando come attraversare un tempo la Cortina di ferro. Nel momento stesso in cui ritornava all’ordine del giorno delle società europee una quisquilia come lo «stato d’emergenza».
E poi i giovani, i giovani... Anche qui una trasfigurazione idealizzante del tutto irreale e autoconsolatoria. Una società di vegliardi, la quale vede la natalità cadere a picco, e che è di fatto organizzata tutta per sfavorire in ogni modo le classi giovanili, si è d’improvviso riconosciuta simbolicamente proprio nei giovani – vittime ovvie, ma certo casuali di sparatorie avvenute all’interno di locali pubblici in una sera di weekend —. Un’enfatizzazione simbolica che forse è servita a nascondere qualcos’altro da tenere nascosto: e cioè il nostro oscuro senso di colpa per il modo in cui trattiamo i giovani, da rovesciare nell’attribuzione di una responsabilità ben maggiore all’efferatezza jihadista; o forse, chissà, la consapevolezza angosciosa che ogni giovane vita sottrattaci costituisce una perdita irreparabile.
E ancora le parole di quel poveretto a cui hanno ucciso la moglie ed è rimasto solo con una figlia in tenerissima età, che i media ci additano mielosamente come esemplari, quasi il prototipo obbligatorio della reazione politicamente corretta: «Non vi farò il dono di odiarvi», «rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete». Se s’intende che non bisogna scendere in strada a organizzare pogrom antislamici, non mi pare proprio che siano cose di cui fortunatamente (ripeto per chi non voglia capire: fortunatamente) esista la minima avvisaglia. Ma di fronte a certi crimini non esiste, non deve esistere, non è moralmente degna, una collera della giustizia? Non era forse giusto odiare i kapò dei campi di sterminio, i carnefici di Nanchino o gli organizzatori della carestia artificiale in Ucraina? E non si parla forse nella Bibbia di una collera di Dio contro i malvagi?
In realtà l’intera rappresentazione mediatica di quanto è accaduto e sta accadendo in Francia e altrove sembra avere soprattutto una funzione più o meno consapevolmente esorcistica del nostro smarrimento, di noi europei occidentali, di fronte a quello che è diventato per noi l’enigma della violenza. La nostra estraneità alla violenza – non a quella che, camuffata in mille modi, esiste pure da noi, bensì alla violenza in quanto uso della forza volontariamente accolto da una cultura nei suoi valori – è ormai tale che non riusciamo neppure a immaginare una società, una religione, che una simile estraneità non la condividano. Che non siano istituzionalmente favorevoli sempre e comunque alla «pace». Il solo pensare che invece esistano lo consideriamo, già in quanto tale, un fatto di violenza. Supporre o suggerire, ad esempio, che su questo punto cruciale della violenza le società islamiche non abbiano la nostra stessa sensibilità, anzi ne abbiano una assai diversa, viene stigmatizzato, già solo questo, come l’anticamera dell’«islamofobia».
Siamo, vogliamo sentirci, così «buoni», che non riusciamo a credere che qualcuno nel mondo possa invece considerarci «cattivi». Fino al punto che ce la voglia far pagare ricorrendo a quella cosa che si chiama guerra: una cosa che al mainstream del pensiero che si dice democratico appare talmente inconcepibile da essere sottoposta, almeno qui in Italia, a un vero e proprio tabù semantico. Da noi la parola «guerra», come ha capito benissimo il nostro presidente del Consiglio, è diventata una parola impronunciabile. E se no del resto come potremmo sentirci così buoni?
Ma perché di guerra si tratti non è necessario essere in due. Basta che uno decida di spararti addosso. Certo, non è detto che ogni colpo di fucile debba rappresentare di per sé l’inizio di una guerra. Ammettiamo però che qualche migliaia di colpi e centotrenta morti possono far sorgere qualche ragionevole sospetto.