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 2015  novembre 21 Sabato calendario

In un’autobiografia uscita ieri la vita di Renzo Arbore che arrivò a Roma guidando una 500 intestata a Gabriele D’Annunzio

Renzo è un diminutivo, sull’atto di nascita è Lorenzo Giovanni Maria Antonio Domenico Arbore. «Mi chiamavano tutti Renzo, era un’abitudine dell’epoca, di prima della guerra». Bettino Craxi lo voleva sindaco di Napoli, Silvio Berlusconi nella sua azienda, la famiglia Agnelli lo invitava a Stupinigi, Sandro Pertini al Quirinale, erano gli anni di Quelli della notte e di
Indietro tutta, le trasmissioni d’oro della televisione, che hanno segnato la vita di Arbore, deciso, per la prima volta, a raccontarsi in un libro E se la vita fosse una jam session?, edito da Rizzoli.
«Nel libro racconto le cose che ho visto – spiega -. La mia vita è diventata abbastanza lunga quindi ci sono diverse cose: ho visto la guerra, il dopoguerra, gli americani, gli anni di piombo e quelli delle mie trasmissioni. E c’è anche la politica». Arbore è l’uomo dello swing, l’autore de Il clarinetto, il signore dell’Orchestra italiana, il collezionista «malato» che vive in una casa piena zeppa di oggetti presi ovunque nel mondo, il più sobrio è un pappagallo che «non canta più solo perché è scarico».
«Ma io non sono solo il collezionista o l’idiota con il pappagallo appeso in cucina – taglia corto – Ho sempre seguito la politica, fin da giovane, alla ricerca di un partito che fosse il mio. Mi privavo delle sigarette per comprare tutti i giornali, ma avevo una fede mia: il jazz e gli americani».
Impossibile credere che qualcuno non l’abbia cercato per una poltrona. «Craxi mi propose di candidarmi sindaco di Napoli per i socialisti – ricorda Arbore –. Io mi vestii da donna e con Gigi Proietti mi presentai sul palco intonando Malafemmina alla presenza di Bettino. Lui si divertì e capì che non volevo fare il sindaco»
Nel libro, uscito ieri, i ricordi di gioventù nella lenta provincia di Foggia si alternano ai racconti delle imprese epiche con i «compagni» Gianni Boncompagni e Ugo Porcelli legate al loro marchio di fabbrica, l’improvvisazione. «Per me è stata un credo – aggiunge –, a Quelli della notte comunicavo agli altri il tema della puntata dieci minuti prima della messa in onda, volevo che le battute fossero spontanee e il pubblico lo capiva. Con Indietro tutta, con Nino Frassica, abbiamo fatto 65 puntate improvvisando».
Prima ancora c’era stata L’altra domenica, il programma del dì di festa, dove «nacque» un giovane toscano chiamato Roberto Benigni. «In quella trasmissione introdussi per la prima volta le donne parlanti: fino ad allora in tv c’erano state solo vallette e Enza Sampò, allora fidanzata di Emilio Fede. Con me debuttò Milly Carlucci, una delle poche donne parlanti che parla ancora oggi. Non ho mai fatto discriminazioni, avevo una regista, la bravissima Rita Vicario, con cui parlavo da “donna a donna”. Inventai per questo le ragazze Coccodè di Indietro tutta, c’era ironia, altro che veline…».
Era un’altra tv in una Rai che ha amato Renzo Arbore, ma lo ha anche messo alla porta. «La Rai dovrebbe avere un grande direttore artistico che si preoccupi solo del prodotto nazionale da esportare – dice -, un Renzo Piano dello spettacolo. E sia chiaro, non voglio farlo io».
In molti lo hanno invidiato: «Ho una serie di invidiatori di professione che non mi invitano alle loro trasmissioni tv e nei loro conciliaboli parapolitici, ma io me ne frego, come si dice, non rintuzzo. A differenza di altri non ho vissuto di espedienti, ma di esperienza».
Tra i tanti oggetti che Arbore possiede, molti dei quali in mostra dal 20 dicembre al Macro di Roma, a uno è particolarmente legato. «La mia Fiat 500 – conclude –. Ci sono arrivato da Foggia a Roma, è intestata a Gabriele D’Annunzio, perché me l’ha venduta il nipote. Quando i vigili mi fermavano e leggevano il libretto di circolazione pensavano che fosse uno scherzo».