La Stampa, 21 novembre 2015
Il recupero critico degli scarabocchi dell’ultimo Picasso
I grandi quadri multicolori dedicati al tema dei Moschettieri, insieme ai dipinti e alle incisioni di spudorata eroticità, sono le ultime vampate creative di Pablo Picasso, che muore a novantadue anni nel 1973. Questa produzione, esposta all’epoca nel castello di Avignone era stata giudicata da quasi tutti come il segno di una penosa decadenza. In modo sprezzante e stupido, il noto critico Douglas Cooper aveva addirittura scritto: «Sono scarabocchi realizzati da un vecchio frenetico nell’anticamera della morte». Ma proprio come era successo con le opere di tutti i suoi precedenti periodi, anche con questa pittura così genialmente sgangherata (e con quella dei precedenti cicli di d’après) Picasso riesce di nuovo a lasciare il suo segno nella storia dell’arte. La rivalutazione eclatante del Picasso finale avviene con la svolta post-concettuale degli Anni 80. Nella grande mostra «A New Spirit of Painting» alla Royal Academy di Londra (1981), con un gruppo di questi ultimi quadri viene proposto come il maestro di riferimento del ritorno alla pittura in chiave postmoderna, ironica, eclettica, transavanguardista, neoespressionista, e finanche della «bad painting».
Con un paradossale cortocircuito culturale, il massimo inventore del modernismo avanguardista diventa così un alfiere dello spirito postmoderno. La messa a fuoco di questa inedita interpretazione di Picasso è uno degli aspetti principali dell’interessante esposizione «Picasso.mania» che si è aperta al Grand Palais di Parigi.
A partire dal Picasso «moschettiere postmoderno» si sviluppa una sezione che propone lavori di artisti che nei modi più svariati fanno riferimento alle sue opere, ai suoi stili e al suo personaggio, da Malcom Morley a Georg Baselitz, da David Hockney a Julian Schnabel, da Martin Kippenberger a Georges Condo e Jeff Koons. Ma nel suo complesso la mostra non è incentrata tanto sull’evoluzione recente del «picassismo» (la cui influenza si era fatta sentire pesantemente per decenni fino agli Anni 50) quanto piuttosto sulla fascinazione del mito dell’artista, che diventa lui stesso insieme alle sue opere più famose una vera e propria icona pop, un elemento pervasivo della cultura di massa. E questo lo avevano già capito molto bene i veri artisti pop, tra cui in particolare Roy Lichtenstein che in molti quadri traduce in chiave ironicamente fumettistica lo «stile Picasso».
Intorno a tre opere di Picasso ruotano i lavori di molti artisti. Si inizia con le Demoiselles d’Avignon (di cui sono presenti alcuni dipinti e disegni preparatori originali), oggetto di versioni parodistiche, come quella di Robert Colescott, di plagi espliciti come quelli di Mike Bidlo, o di omaggi alla sua africanità da parte di Romuald Hazoumé.
Segue Guernica, icona politica contro tutte le guerre, su cui nessuno osa scherzare. Di particolare intensità è il film, dal titolo omonimo, di Emir Kusturica. E veramente impressionante è l’immenso assemblage di animali carbonizzati (della stessa identica misura del dipinto) di Adel Abdessemed che si intitola Chi ha paura del gran lupo cattivo?. Ma l’intervento più intelligente è l’installazione di Goshka Macuga: un grande tavolo per riunioni politiche con sullo sfondo la grande foto della sala dell’Onu dove si vede Colin Powell che sta pronunciando il suo famoso discorso sulle armi chimiche di Saddam Hussein (inesistenti). Dietro di lui, nella sala, c’era un arazzo che riproduce Guernica, che per l’occasione fu nascosto con un telone. Svelando la censura e mettendo di nuovo in evidenza l’immagine dell’opera, l’artista polacca dimostra la malafede politica e la forza di impatto sempre attuale di quel capolavoro.
La terza icona picassiana è La donna che piange, dove si vede il viso di Dora Maar stravolto. Questo dipinto ha ispirato un’affascinante e spiazzante videoinstallazione di Rineke Dijkstra, dove non si vede mai il quadro ma solo le espressioni delle facce di ragazzi che lo stanno guardando e commentando. Questo e altri ritratti femminili degli Anni 30 (di cui sono esposti vari esempi), con i loro tratti scombinati e gli occhi da una sola parte come le sogliole, sono diventati nell’iconografia di massa gli stereotipi più diffusi dello «stile Picasso», e nelle vignette comiche, insieme alle composizioni astratte alla Mondrian, gli esempi classici dell’arte moderna incomprensibile. In ogni caso a dominare dappertutto in ritratti, documentazioni fotografiche e filmati è lui stesso: la sua inconfondibile figura piccola ma carica di energia, il suo sguardo penetrante, l’universo magico dei suoi vari atelier, i suoi calzoni corti con la mitica maglietta alla marinière. Ed è proprio Picasso in persona che ci accoglie all’entrata, ma trasformato in una comica e grottesca maschera da carnevale di Viareggio. Si tratta di una «statua», in fibra di vetro e polistirolo a colori, di Maurizio Cattelan. Nel 1998 il MoMa di New York gli chiede un progetto, e l’artista realizza questo pupazzo con il testone che (animato da un attore all’interno) passeggia davanti al museo, si fa fotografare con i visitatori e rilascia autografi. Picasso diventa come Topolino, e il museo d’arte un parco d’attrazioni.