La Stampa, 21 novembre 2015
Il traffico d’armi è in crescita. I grossisti della ’ndrangheta ricavano da questo commercio almeno un miliardo l’anno
Ma tutte queste armi, da guerra, come sono finite nelle mani dei terroristi di Parigi? E come mai le polizie di Francia e Belgio non hanno ricevuto neppure una soffiata sulla loro vendita? È uno dei molti rompicapo su cui si arrovellano in queste ore gli operativi dell’intelligence europea, per capire quale meccanismo ha favorito l’organizzazione degli attentati del 13 novembre, e cercare di prevenire i prossimi, che potrebbero già essere pronti a scattare con le stesse modalità.
Traffico in espansione
Il traffico delle armi nel Vecchio continente è un mercato enorme e in espansione, secondo fonti che ci lavorano contro ogni giorno. La rotta originale era quella balcanica, dove passavano i kalashnikov e gli esplosivi in arrivo dagli arsenali dell’Europa orientale, transitando da Paesi come Romania, Bulgaria, Ungheria, ex Cecoslovacchia, Polonia, verso la Bosnia e la Slovenia, da cui poi passavano nel cuore dell’Europa. Si calcola che alla fine delle guerre che avevano dilaniato l’ex Jugoslavia, nella regione c’erano almeno 4 milioni di armi illegali. A queste forniture ora si sono aggiunte quelle in arrivo dall’Iraq e l’Afghanistan, dove vengono trafugati mitra e altri strumenti di morte portati laggiù dagli occidentali per combattere le guerre seguite agli attentati dell’11 settembre 2001. La rotta balcanica, così, è stata affiancata da quella dell’Africa settentrionale, inclusa la Libia, che ormai è un porto franco da cui passa qualunque cosa.
Il traffico viene gestito dai «grossisti», che prendono in consegna i carichi e li portano a destinazione, e dai rivenditori al dettaglio, che poi li ricevono e li smerciano. Il Belgio è tradizionalmente un punto di arrivo privilegiato nell’Europa del Nord, che ha soppiantato l’America Latina come mercato principale.
I «grossisti» sono i grandi gruppi della criminalità organizzata, inclusa la ’ndrangheta, che secondo alcune stime approssimative incassa circa un miliardo di euro all’anno da questo traffico. Un kalashnikov quando arriva sul mercato nero può costare fino a tremila euro. Il percorso seguito dalle armi è lo stesso della droga, e quindi è fondato il sospetto che uno dei porti utilizzati sia quello di Gioia Tauro. A differenza della droga, però, si tratta di carichi più piccoli e meno frequenti, che possono essere lasciati nei depositi a lungo, perché poi quando si fanno le consegne gli incassi sono sempre rilevanti. Questo rende anche più difficile l’intercettazione. Alle volte si muovono anche solo cinque o dieci pezzi, nascosti nelle auto o nei camion. Alcuni analisti arrivano a sospettare il silenzio, se non la connivenza, dei produttori, che come avveniva nel caso del contrabbando delle sigarette, non stanno sempre a porsi troppe domande.
I «grossisti» non vendono direttamente ai terroristi dell’Isis, che si rivolgono invece ai piazzisti al dettaglio. Nel caso degli attentati di Parigi, le stime fatte dall’intelligence nelle prime ore dopo la strage erano che il gruppo responsabile aveva acquistato almeno una quindicina di kalashnikov, molti dei quali quindi non sono ancora stati ritrovati.
Il lavoro degli investigatori
L’elemento più preoccupante per gli inquirenti è che in genere, quando ci sono simili movimenti di armi da guerra, qualche soffiata arriva sempre alla polizia. Le forze dell’ordine infiltrano i trafficanti, una dritta finisce alle loro orecchie. In un caso come quello di Parigi, e del Belgio che ha fatto da base organizzativa, chiunque viva nella criminalità organizzata e abbia gli occhi aperti sul mondo, dovrebbe farsi venire qualche sospetto quando vede ragazzi di origine araba che cercano una fornitura significativa di armi da guerra. E invece nulla. Non solo francesi e belgi non hanno ricevuto soffiate che potessero metterli in guardia, ma gli investigatori che di mestiere seguono il traffico delle armi non hanno neppure piste concrete aperte da seguire per rintracciare e bloccare i fornitori.
Questo preoccupa per ovvi motivi. È chiaro ormai che l’Isis ha cambiato strategia, e punta a colpire su scala globale come faceva al Qaeda, usando però una tattica diversa: attacchi meno elaborati, lanciati contro obiettivi soft e imprevedibili, da militanti che imbracciano il kalashnikov. Intervenire sul traffico delle armi sarebbe fondamentale per fermarli, ma le sue dimensioni e modalità lasciano supporre che ci siano altre cellule già pronte a colpire.