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 2015  novembre 21 Sabato calendario

Jack London fotografo

Pochi mesi dopo essere tornato in California dal Klondike, Jack London scrisse a un amico: «Non ho ancora smesso di prendermi a calci per non aver portato con me una macchina fotografica». Non osiamo pensare a come sarebbe la corsa all’oro fotografata dall’autore del “Richiamo della foresta”, e il nostro rimpianto aumenta di fronte alla bellezza e all’intensità delle fotografie scattate da London nel corso dei suoi reportage. Fotografie (ne ha lasciate più di 12.000) che spesso sembrano uscire direttamente dai suoi libri, tanto sono organiche al carattere e allo stile di uno scrittore che come pochi al mondo ha coniugato il senso della realtà (della più cruda e impoetica realtà) con il mito e con il sogno.
Una piccolissima ma eloquente porzione di questo tesoro è riprodotta in un libro curato da Alessia Tagliaventi e introdotto da un londoniano militante come Davide Sapienza (Le strade dell’uomo, Contrasto). In ciascuna delle quattro sezioni che lo compongono (le condizioni di vita nell’East End londinese, 1902; il fronte coreano della guerra russo- giapponese, 1904; il terremoto di San Francisco, 1906; un viaggio di due anni nel Pacifico, 1907-1909) le immagini sono accompagnate dai testi che London scrisse come reporter, e che in due casi divennero poi un libro ( Il popolo dell’abisso, 1903, e La crociera dello Snark, 1911). Non nascondo la mia predilezione per le due sezioni metropolitane: brulicante di derelitti quella londinese, spettralmente disabitata quella su San Francisco. Per la prima London si travestì da disoccupato, per non suscitare diffidenza e «incontrare la gente da uguale»: cenciosi ed emaciati, gli abitanti «di quella voragine infernale che ha nome East End» gli appaiono come «una razza nuova e diversa», la stessa che sette anni prima, nella Macchina del tempo, Wells aveva collocato sottoterra dandole il nome di Morlocks. Solo i bambini sembrano ancora umani, anzi talmente umani che descrivendoli London sembra parlare di se stesso: «Sono pieni di immaginazione. Hanno una capacità fuori del comune di proiettarsi nel regno del romanzesco e del fantastico. La vita scorre nelle loro vene piena di una gioia tumultuosa». Una foto in particolare mi ha colpito: ritrae una ragazza che sta sfregando un pavimento («una serva dell’East End», recita la didascalia), e che guarda nell’obbiettivo con un sorriso da innamorata: per quanto mimetizzato, mi piace pensare che London le sia apparso come una specie di angelo.
All’alba del 18 aprile 1906 San Francisco fu abbattuta dal terremoto: nei quattro giorni successivi divampò un immenso incendio che completò la distruzione, e che London osservò da alcune miglia di distanza. Invitato da più giornali a scriverne si rifiutò, affermando che nessuna combinazione di parole avrebbe mai eguagliato quella tragedia: accettò invece quando il Collier’s Magazine gli chiese un servizio fotografico. London arrivò in città mentre ancora infuriava l’incendio e avanzò a misura che le fiamme arretravano: eppure le sue fotografie non recano alcuna traccia di agitazione o precarietà; al contrario ci consegnano una San Francisco già “classica”, una moderna Pompei fissata da uno sguardo leopardiano: ma basta distrarsi un attimo e da Pompei ci ritroviamo a Berlino o a Dresda nel 1945, con un’anticipazione che sul piano tecnico ha del miracoloso.
Il momento fatale di Lord Jim fu l’abbandono della nave; quello di London, a prendere alla lettera le sue parole, fu il salvataggio di una nave, allorché un capitano sgomento gli affidò il timone durante una tempesta: «Il successo di cui vado più fiero, il momento supremo di tutta la mia vita, l’ho vissuto a diciassette anni», scrive nella Crociera dello Snark per motivare la scelta di investire i suoi risparmi nella costruzione di un’imbarcazione “su misura” per fare il giro del mondo, tempo stimato sette anni.
A causa di una malattia tropicale che colpì London alle Isole Salomone, il viaggio durò invece due anni, durante i quali il marinaio non si dimenticò mai di essere scrittore e fotografo. Lo vediamo studiare una carta nautica insieme alla sua compagna Charmian e con le gambe penzoloni dalla fiancata dello Snark, ma soprattutto vediamo gli abitanti delle Samoa oppure lo straordinario Ernest Darling, “l’uomo natura” che scelse di vivere nelle foreste di Tahiti, e che in una splendida fotografia, stagliato su un fondale degno di Henri Rousseau, ci appare come il Ben Gunn dell’Isola del tesoro. Ma forse l’immagine in cui lo spirito dell’autore è più evidente è quella che ritrae una banda musicale di quattordici elementi in divisa da parata: sono i lebbrosi dell’isola di Molokai, oggetto di “spaventose leggende” cui London non vuole credere, tanto più dopo aver scoperto che nessun cronista ha mai messo piede sull’isola. Così adesso è davanti a loro, che lo guardano impugnando uno strumento, pronti a suonare a un suo cenno.