Corriere della Sera, 21 novembre 2015
I “Narcos” di Netflix
Netflix è sbarcato in Italia da poche settimane e ha già avuto il merito di portarci la serie più interessante di questo periodo, «Narcos», una produzione originale della piattaforma americana che si inserisce in una proposta ormai varia e ricca di titoli inediti (come anche «Bloodline»).
Siamo in Colombia, tra gli anni 70 e 80: Pablo Escobar sta costruendo le fondamenta del suo impero milionario sul narcotraffico, produzione e distribuzione di cocaina tra Sud America e Usa. Mentre viene braccato da autorità colombiane e squadre speciali di «gringos», agenti Usa, si lascia alle spalle una poderosa scia di sangue (il numero di morti di quel periodo fa pensare a una vera e propria guerra civile). Escobar non è stato solo un trafficante, ma una figura di criminale diventata leggendaria, al centro di una mitologia costruita sulla dismisura di denaro, che la serie esibisce di continuo, e sull’uso spietato della violenza, oltre che su alcuni contraddittorii ideali da Robin Hood.
«Narcos» racconta la sua storia, dai primi passi come piccolo contrabbandiere a ricercato capace di imporre le sue regole ai fragili governi colombiani. Lo fa con uno stile che raccoglie e rilancia le migliori tendenze del racconto contemporaneo. La serie è pervasa da una forte vena documentaristica che traspare nell’accuratezza della ricostruzione del periodo, nella piena aderenza alla realtà dei fatti (spesso si utilizzano immagini e altre fonti originali), trasformati in narrazione senza virarli in melodramma. Pablo ha la statura dell’eroe negativo ma a differenza di quanto avviene in altre serie con lui non si empatizza: vediamo la sua umanità con la famiglia ma non gli vengono mai fatti sconti narrativi, non c’è indulgenza. Anzi proprio il contrasto tra persona pubblica e privata lo rende più imperdonabile.
Grazie all’ibridazione con i codici del documentario, «Narcos» porta il gangster movie a un livello più raffinato e complesso.