Corriere della Sera, 21 novembre 2015
Enzo Biagi e la televisione
«Il miglior programma della nostra televisione è durato in tutto quattro minuti. Protagonisti: un pazzo, un deficiente, novantasette bambini, tre maestre, un operaio. Una folla di giornalisti, poliziotti, fotografi, madri e padri, curiosi faceva da coro. Non dimenticheremo quelle immagini rapide, asciutte, quella drammatica cronaca registrata in non molti metri di pellicola…». È l’ottobre del 1956: i fratelli Santato si asserragliano nella piccola scuola di Terrazzano, vicino a Rho, con i cento bambini e le spaurite maestre come ostaggi, minacciando di far saltare tutti quanti. Le prime due cose che gli squilibrati chiedono alle allibite autorità assiepate intorno all’edificio sono queste: soldi e pubblicità. Per i soldi, duecento milioni, provvede la Banca d’Italia. Per la pubblicità intervengono d’urgenza la radio e la tv. Il critico televisivo di «Epoca» capì subito che la neonata tv stava dando il suo meglio quando viene a contatto con l’incandescenza della cronaca.
C’era un interessante quanto sconosciuto aspetto di Enzo Biagi (1920-2007), cui un saggio di un valente studioso, Giandomenico Crapis, ha posto rimedio: Enzo Biagi, «Epoca» e la sua rubrica televisiva in «Problemi dell’infor-mazione», Anno XI, n. 2, (Il Mulino, 2015). Sì, Biagi è stato critico televisivo di «Epoca» dal 1956 al 1960; per altro, di quel prestigioso settimanale, era anche il direttore.
La tv in Italia era nata da poco (1954) e i giornali facevano non poca fatica a individuare la figura del «telecritico» (come si diceva allora), una persona capace di pronunciarsi sui più svariati generi di spettacolo e di informazione: generi che, abitualmente, prima dell’avvento della tv, erano oggetto di altrettanti tipi di critica specializzata. Sino a oggi – si diceva – la pittura, la musica, il teatro, la letteratura, le scienze, il varietà, persino l’attualità erano affidati a commentatori differenti, i quali se ne occupavano ciascuno in base alle proprie competenze e specializzazioni. Poi, quasi d’incanto, tutti questi generi diventano parte integrante della tv e il «telecritico» si vede costretto ad affrontarli tutti insieme e a trasformarsi in una sorta di giudice universale, esperto dello scibile umano e di ogni forma di divertimento. L’idea che ci fosse un linguaggio televisivo a «unificare» tutte queste varie forme espressive non sfiorava ancora gli affannati pensieri del novello recensore.
Come ha scritto Cecilia Penati in Storie e culture della televisione italiana (Mondadori), «la critica televisiva nasce in Italia nel milieu della letteratura. Per almeno un decennio (dal finire degli anni Cinquanta fino ai tardi anni Sessanta) sono molti gli scrittori, i poeti e i letterati a cui viene affidata una rubrica di critica televisiva su stampa quotidiana e riviste settimanali di varia tipologia: Achille Campanile, Gaio Fratini, Alfonso Gatto, Giovannino Guareschi, Luciano Bianciardi, Gabriele Baldini. In estesi settori del mondo editoriale e culturale nazionale i primi passi mossi dalla tv vengono accompagnati da sentimenti di sospetto e diffidenza: il piccolo schermo è interpretato come il vero condensato della cultura di massa a uso di un pubblico piccolo borghese, come uno spazio commisto dove crollano le tradizionali divisioni dei campi delle arti. Ecco allora che gli editori si trovano costretti a prendere una decisione: nell’impossibilità di ignorare il nuovo medium, di cui intuiscono le potenzialità di diffusione e di impatto sociale, si tutelano affidando la costruzione di un pensiero intorno alla tv ai letterati, che rappresentano i riconosciuti custodi di un modello di sapere tradizionale». Biagi intuisce subito l’importanza di questo nuovo mezzo e si autoassegna il compito di spiegarlo ai suoi lettori. Si occupa di tutti i programmi, dal varietà allo sport. A volte entra nello specifico della trasmissione o della conduzione, a volte si serve del programma come spunto per parlare d’altro. Il tono è sempre fra l’ironico e il severo, ma senza pregiudizi, senza altezzosità. Biagi capisce subito che la tv è il più potente mezzo di comunicazione di massa e se il settimanale che dirige vuole andare al passo con la modernità non può fare a meno di ignorare quello che d’allora viene chiamato «il piccolo schermo».
«La rubrica – scrive Giandomenico Crapis – desta curiosità e interesse, e non di rado le sue righe generano malumori e polemiche, non solo nel mondo della politica, dei dirigenti della Rai, dove la reazione è di insinuare che coloro che muovono appunti siano, lamenta lo stesso Biagi, solo “collaboratori respinti o individui servili che, per far piacere al loro editore, attaccano il monopolio perché miete troppi miliardi nell’agognato campicello della pubblicità”. Dell’intolleranza verso la critica diventano protagonisti anche gli attori e i personaggi che calcano le scene televisive: se la prendono per qualche appunto del giornalista, si irritano per un giudizio non del tutto favorevole, si adombrano per un’ironia ben riuscita».
Anche allora, dunque, i personaggi televisivi reagivano con violenza alle critiche. Renato Rascel, per esempio, si stizzisce non poco per alcune osservazioni non proprio favorevoli e nel corso dell’ultima puntata di Rascel la nuit (1956) irride il critico davanti a milioni di spettatori chiedendosi in diretta cos’abbia fatto «in questi vent’anni il signor Enzo Biagi». Stessa sorte con Walter Chiari, che ha il vizio di utilizzare il video (la trasmissione è Teatrino, 1959) per attaccare i suoi recensori. Biagi risponde così a quella che definisce una polemica sleale: «Significa affrontare col cannone un individuo armato della biblica fionda. Né vale l’offerta di un contraddittorio davanti alle telecamere: premesso che ognuno deve restare al suo posto, il giornalista discusso sarebbe la vittima predestinata di un gioco di cui ignora le regole. Lei lo invita ad esibirsi in un mestiere che non è il suo. Non lo faccia più, caro Walter Chiari. Pensi piuttosto ad una rivincita. Una bella trasmissione, pensata, studiata, provata». Del resto, la medesima gogna era capita ad Achille Campanile, critico tv dell’«Europeo». Anche lui (nel 1959) aveva dovuto stigmatizzare a cattiva abitudine di Walter Chiari: «Non so se la televisione dia alla testa a quelli che appaiono sui teleschermi, o se si crei in costoro una specie di psicopatia o di ipersensibilità morbosa. Ormai è diventato un fatto consueto polemizzare dal video con giornalisti che si occupano di televisione, e addirittura servirsi della televisione per fatti personali… L’attore finché è sul palcoscenico, ha soltanto il diritto di recitare, male, o, se gli riesce, bene. Se vuol replicare, lo faccia pure, ma in altra sede e perfino nello stesso giornale che lo ha attaccato, o in un qualsiasi altro giornale; o, se preferisce, a bastonate per la strada, o sfidandolo a duello, o dando querela».
Già allora, i personaggi più famosi della tv (Mike, il prof. Cutolo, Billi e Riva, Tognazzi e Vianello…) per autoassolversi ripetevano un mantra che continua anche ai giorni nostri: «Accetto le critiche costruttive, non quelle distruttive». Biagi non sfugge a questo tormentone e con tutta la sua ironia traccia in maniera memorabile la figura del critico ideale per i criticati, quello «costruttivo», appunto: «Il critico costruttivo non si limita ad osservare, assaggiando una sgradevole frittata, che le uova sono marce; il critico costruttivo assume scrupolosamente la parte della gallina e se non riesce a scodellare tuorli freschi è solo per obiettivi impedimenti fisici. L’esemplare personaggio insegna agli attori il segreto della buffoneria, ai pittori le risorse del colore, ai musicisti la via dell’ispirazione. Il critico costruttivo ha, in genere, un linguaggio tecnico scoperto (parla di “specifico televisivo”, di “scala dei grigi”, di “recitazione funzionale”) e qualche aspirazione nascosta. Collabora, con la sua prosa, al miglioramento delle trasmissioni, e si prepara a collaborare, se è possibile, alla compilazione di programmi».
Ovviamente Biagi dedica molta attenzione ai telegiornali, come giustamente annota Crapis: «Tranne qualche bella eccezione il settore è governato dalla più assoluta mancanza di iniziativa, dall’assenza di un qualsiasi pluralismo politico e culturale, dalla prevalenza di un tono celebrativo-pedagogico, allineato alla causa governativa, o quando va bene della maggioranza. Prima dell’arrivo delle tribune politiche la presenza di esponenti dei partiti dell’opposizione in video è quasi pari allo zero, mentre è totalizzante quella degli esponenti dell’esecutivo, soprattutto ministri e sottosegretari. Il telegiornale è pieno di tagli di nastro, di notizie curiose, di arrivi e partenze di personaggi della politica o dello spettacolo, di mostre o processioni spesso legate a questo o quel politico (governativo), di premi letterari, discorsi congressuali: la maggior parte sono notizie trascurabili o con performance informativa molto bassa». Biagi è dell’idea che i telegiornali tanto più risultano «vivi e gradevoli» quanto meno sono «ufficiali».
E qui succede l’imprevisto della vita, la famosa eterogenesi dei fini. Nel 1960 Arnoldo Mondadori, su pressione dell’allora premier Fernando Tambroni (un governo monocolore democristiano con il determinante appoggio dei missini), licenzia Biagi da direttore di «Epoca» per un articolo sui morti di Reggio Emilia uccisi dalle forze dell’ordine (7 luglio 1960).
Nel settembre dell’anno successivo Ettore Bernabei lo chiama alla direzione del telegiornale. Si pensava allora che l’arrivo di un professionista stimato potesse aprire una nuova epoca nell’informazione paludata della Rai. Biagi chiese solo di poter scegliere giornalisti svincolati dai partiti. Scelta impossibile, e il suo incarico durò pochi mesi. Non così la sua proficua e importante collaborazione con la Rai, ricca di interviste, rubriche, programmi. Il tono quasi dimesso, che ha rappresentato la cifra inconfondibile di ogni sua apparizione televisiva, è stato in realtà il frutto di un ostinato lavoro di diradamento. Lo stile del potatore, che sfronda e alleggerisce per irrobustire la pianta. Ma chissà cosa avrebbe scritto il critico Biagi di se stesso!