Corriere della Sera, 21 novembre 2015
L’arte di Abderrahmane Sissako, il regista che col film “Timbuctu” raccontò i qaedisti del Mali
È molto vicino a Parigi. È vicino a tutti noi, impauriti o feriti nell’animo, il Mali dove ieri il terrorismo islamico ha nuovamente fatto sentire la sua terribile voce. A raccontare questo Paese africano che ha subito negli anni scorsi l’infamia dell’oppressione jihadista è stato un regista geniale, il mauritano Abderrahmane Sissako, convinto che l’arte debba essere «ottimista» ma incredibilmente capace di descrivere con mano sicura la follia del fanatismo. Questo cinquantaquattrenne che ha studiato cinema in Unione Sovietica (quando il mondo era diviso in un modo diverso) ci ha fatto capire con Timbuktu l’assurda, paradossale arbitrarietà di chi agisce e uccide nel nome di un dio assente.
Sissako non parla di attentati. Forse non immaginava nemmeno, quando ha girato il suo film nel 2013, che nel Mali (dove è nato suo padre) bande di assassini avrebbero colpito a sangue freddo, un venerdì di novembre, in un albergo frequentato da stranieri, ultima tappa della allucinata escalation a cui stiamo assistendo disarmati. Il suo sguardo si è concentrato sulle proibizioni e i divieti imposti dai militanti della guerra santa nella città catturata nel 2012 da un gruppo legato ad Al Qaeda e liberata un anno dopo dall’esercito del Paese africano e dai francesi. Un’occupazione che più che fermare il tempo, aveva cancellato la vita.
I qaedisti di Timbuktu proibiscono la musica, il calcio e il fumo. Lapidano gli amanti, frustano chi canta, obbligano le donne velate a mettere i guanti. Sono impostori che mentono a tutti, perfino a se stessi. Parlano delle cose che vietano, sanno tutto su Zidane e Messi, accendono sigarette di nascosto, guardano le donne (e le molestano) quando pensano di non essere visti. Credono di essere al di sopra di ogni legge umana perché investiti dal compito di applicare la loro. Camminano con gli stivali nella moschea perché fare la guerra santa li dispensa dal rispetto.
Cosa resta alle vittime, oltre la fuga? Solo la finzione, purtroppo. I ragazzi giocano a calcio senza palla, come nella partita di tennis immaginata qualche secolo fa – sembra – da Michelangelo Antonioni in Blow up. Lo fanno per sopravvivere. Sta a noi raccoglierla. E riportare in campo quella vera.