IL – Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015
Rompersi il crociato e diventare il miglior running back della Nfl
Qualche anno fa, disgustato dall’inarrestabile decadenza del calcio, avviai a guardare il football americano sui canali satellitari.
Mentre mi familiarizzavo con le regole complicatissime e coi nomi spesso ridicoli delle squadre (i Caproni di St. Louis, i Vichinghi del Minnesota, i Titani del Tennessee, i Santi di New Orleans), mi accorsi che non venivano trasmesse solo le partite della NFL – la lega professionistica, quella che si conclude col Super Bowl – ma anche quelle del college football: il campionato tra le squadre delle università.
Erano immagini molto diverse, e sembravano raccontare due sport differenti. Se durante le riprese delle partite della NFL veniva sempre esaltata la spettacolarità dello sforzo atletico dei giocatori e privilegiato il dramma dell’alternanza del risultato, tra un’azione e l’altra del college football era spesso inquadrato un pubblico appassionato e gioioso di ogni età che riempiva le tribune di stadi immensi dalla forma così asimmetrica da diventare quasi comica, più capienti di San Siro, troneggianti su cittadine di cui conoscevo appena il nome (Tuscaloosa, Baton Rouge, Ann Arbor) o addirittura a me del tutto sconosciute (Auburn, Stillwater, Norman, College Station).
Era una moltitudine di allegri che tifava accanitamente per squadre accanitamente rivali senza che a nessuno venisse in mente di guardar male il vicino o la vicina di posto solo perché parteggiava per la propria università, e così tutti sembravano divertirsi un mondo a guardare il football per ore, e ridevano e cantavano e a volte addirittura ballavano al suono di grandi bande musicali composte di decine e decine di studenti e studentesse in divisa che prima della partita si esibivano sul campo da gioco e poi salivano – con trombe e tromboni, piatti e grancasse – sulle tribune e contrappuntavano la partita con inni e marcette d’incoraggiamento e l’onnipresente popopopopo della Seven Nation Army degli White Stripes.
Perché il football della NFL è uno sport, mentre il college football è un gioco, e le sue partite delle vere e proprie feste, celebrazioni settimanali del cuore immenso dell’America che ho sempre amato, quella che non teme la modernità perché la ricrea di continuo a sua immagine e riesce sempre a portare nel futuro anche tutto il meglio del passato, e mai ti fa pensare che i bei tempi sian quelli andati. Poi mi ricordai di Don Gately, che a pagina 1.220 di Infinite Jest si incanta davanti alla televisione a vedere Orin Incandenza guidare la sua Boston University contro Clemson e si ritrova a piangere come un bambino «per aver smesso di giocare a football, il suo unico talento e il suo secondo amore, perché era stupido e non aveva saputo disciplinarsi»; e mi ricordai di quando, nella prima pagina di Franny e Zooey, Franny arriva col treno in una cittadina del New England nel weekend dell’incontro con Yale, e così finii per innamorarmi di questo immenso contenitore di storie umanissime e di umanissima mitologia che è il college football.
Ben presto non mi bastò più l’unico incontro che veniva trasmesso il sabato notte, e avviai a seguire sul computer le vicende di quel campionato astruso e popolarissimo che dieci anni fa ha abolito il pareggio e divide le università in gironi macroregionali, così da rendere ogni partita una sorta di derby epico, sia pure nel giovane senso americano del termine.
Provate a immaginare che la Sapienza abbia una squadra di calcio e giochi contro la rappresentativa della Cattolica allo Stadio Olimpico, davanti a ottantamila persone, mentre Rai Uno trasmette la partita in diretta alle otto e mezzo del sabato e forse avrete un’idea della popolarità di queste partite appassionanti e sentitissime, costellate di grandi imprese ed errori marchiani perché giocate da ragazzi tra i diciotto e i ventidue anni colmi di paure e d’entusiasmo, frutto d’una selezione spietata e dunque sempre o quasi sempre d’umile e umilissima origine, che interpretano per quattro anni la parte dei giocatori di football ma non son pagati nemmeno un dollaro, e oltre ad allenarsi devono studiare e presentare voti sufficienti, e godono e tremano insieme al pensiero di esibirsi ogni sabato davanti a tutta la nazione rappresentando molto più di loro stessi, nella speranza selvaggia di riuscire a diventare professionisti e giocare nella NFL e guadagnare milioni di dollari. Solo il sette per cento di loro ce la farà, gli altri si dovranno accontentare della gloria d’aver vissuto per quattro anni una delle infinite versioni del sogno americano e, conseguita la laurea, diventeranno avvocati, dentisti, assistenti sociali, piccoli imprenditori, impiegati – persone normali con un sacco di storie da raccontare.
Perché ogni settimana il college football scrive grandi storie. Credetemi, ogni settimana che Dio manda in terra. Ve ne racconto una fantastica, un po’ agra e un po’ dolce. È la storia di Ettore, non d’Achille: il nostro Ettore si chiama Todd Gurley, e fino all’anno scorso era il running back della University of Georgia.
Dotato di un fisico eccezionale, al tempo stesso potente e agile e velocissimo, bello come il sole eppure schivo e taciturno, il volto tenuto sempre al riparo delle lunghe trecce rasta, Todd Gurley eccelle nel suo ruolo, che richiede l’impresa proletaria e apparentemente suicida di farsi dare la palla e correre alla massima velocità verso la difesa schierata della squadra avversaria nel tentativo di perforarne le linee e arrivare più avanti possibile, sperabilmente fino alla linea di meta, evitando i colpi di undici titani animati dall’unico scopo di abbatterlo al suolo con tale forza da scuotergli il corpo e l’anima, sperando così di impaurirlo e di rallentare la sua prossima corsa.
Avviai a tifare per lui dopo averlo visto sorvolare un gigante che gli si era lanciato addosso durante una delle sue tante volate con la maglia rossa fuoco della University of Georgia una squadra gloriosa e sfortunatissima il cui simbolo è un bulldog uguale identico al mio povero Rocco, seguita da legioni di tifosi appassionati e tetragoni alle sconfitte che piovevano ogni volta che affrontava le università più blasonate e guidata da Mark Richt, un brav’uomo mediocre e pauroso che pur guadagnando 3 milioni l’anno – è un affare di dimensioni colossali, il college football, se non sei un giocatore – si presentava sempre stremato e affranto alle interviste del dopo partita.
Il 2014 pareva essere l’anno buono per Georgia: la stagione avviò con una gran vittoria in casa contro Clemson firmata da una strepitosa prestazione di Gurley, ma proseguì con un’inopinata sconfitta contro South Carolina per via di un errore di Richt, che negli ultimi secondi di gioco andò in confusione e ordinò inesplicabilmente al quarterback di lanciare la palla verso le mani tremule di un bolso wide receiver invece di affidarla al Nostro.
Le tre larghe vittorie seguenti riportarono in alto Georgia, però, e si avviò a parlare di Gurley come candidato numero uno all’Heisman Trophy, il premio che viene dato ogni anno al miglior giocatore del college football. Ma, out of the blue, il 10 ottobre del 2014 Todd Gurley venne sospeso per quattro settimane dalla NCAA, il potentissimo ente che sovrintende a tutto lo sport universitario americano: c’erano indagini in corso per stabilire se il ragazzo avesse infranto le severissime regole di comportamento degli studenti-giocatori, accettando di incassare la somma di tremila dollari in due anni per apporre la sua firma su bigliettini e cappellini e fogli di carta, come denunciava un commerciante di questa paccottiglia chiamata memorabilia.
Perché gli stadi del college football si riempiono ogni settimana di spettatori paganti, gli allenatori guadagnano milioni anche se dirigono squadre di università minori e le più grandi aziende del mondo si battono per inserire i loro spot nelle trasmissioni in diretta delle partite, ma gli studenti-giocatori possono accettare solo vitto e alloggio e lezioni dalle loro università, ed è loro proibito incassare anche un solo centesimo.
Todd Gurley viene da Tarboro, una cittadina sperduta nel North Carolina che conta poco più di diecimila abitanti. È un ragazzo tranquillo – a reluctant superstar, lo definiscono all’ESPN. Parla poco, forse perché ha passato l’infanzia ad allenarsi e studiare in una di quelle roulotte ammobiliate che gli americani chiamano mobile home insieme a tre fratelli nati da un altro padre, accudito da una madre sola ma premurosissima, che faceva l’infermiera di notte ma non mancava mai far trovare ai figli la cena pronta e i vestiti stirati. È cresciuto con la passione del basket, e ce n’è voluta per convincerlo a giocare a football. Uno dei suoi fratelli si trova in prigione, condannato per rapina a mano armata. Gli è morto il miglior amico in un incidente stradale. Suo padre vive da qualche parte a Baltimora.
Ne ha viste di cose, Todd Gurley, e della sospensione non disse una parola. Non si dichiarò innocente e perseguitato. Non rilasciò interviste di fuoco per lamentarsi del fatto che gli veniva impedito di giocare quasi metà del suo ultimo campionato da studente. Non denunciò l’ingiustizia di quelle regole stupide che aveva stupidamente infranto, perdendo ogni possibilità di vincere l’Heisman Trophy e mettendo a rischio i sogni di gloria di Georgia. Ammise l’errore, chiese scusa a tutti e continuò ad allenarsi in silenzio.
Rientrò troppo tardi, a stagione ormai compromessa – senza di lui, infatti, Georgia era andata a perdere rovinosamente contro Florida – ma c’era ancora da giocare la partita dell’orgoglio contro Auburn, l’arcirivale della Deep South’s Oldest Rivalry, un’allegra faida iniziata nel 1892, l’anno del primo incontro tra le due università.
La prima palla della partita è un lungo rilancio che gli cade in braccio. Todd Gurley si trova oltre la linea di meta della sua squadra, a una delle estremità del campo, i piedi a calpestare la prima L della grande scritta BULLDOGS, e chissà a cosa pensa, o se pensa, mentre si lancia alla massima velocità contro l’intera squadra di Auburn che gli corre incontro e le passa miracolosamente in mezzo senza nemmeno rallentare e senza che nessuno lo sfiori nemmeno, come protetto dagli dei, e poi continua a volare in campo aperto, solo e irraggiungibile e perfetto, futurista, spinto dall’entusiasmo e dalla commozione dei novantaduemila tifosi giunti fin lì ad applaudirlo, davanti ai quali, superata trionfalmente la linea di meta dopo una corsa di più di cento iarde, si inchina in un gesto plateale e sorprendente, insolito per lui.
Forse sta chiedendo scusa della cazzata degli autografi, chissà. Di certo non ha occhi che per il suo pubblico in festa, ubriaco di felicità – non è certo il momento di voltarsi a guardare gli arbitri che gli corrono incontro sbuffando, ancora lontani, o il suo allenatore depresso con le mani infilate nei capelli radi, o i compagni che si disperano e sbattono a terra i caschi perché già sanno che quella meta meravigliosa non è valida, visto che nel caotico svolgersi dell’azione un arbitro ha rilevato un’invisibile venialità a centrocampo di uno dei suoi compagni, e l’ha annullata.
In campo nessuno protesta, tantomeno lui, che nel resto della partita dà spettacolo e porta Georgia a una memorabile vittoria per 34-0, ma deve uscire dal campo cinque minuti prima della fine, zoppicando tra gli applausi d’uno stadio commosso che ha forse capito prima di lui l’enormità dell’infortunio che gli è toccato. Si è rotto il legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro, Todd Gurley, e ora la sua stagione è finita davvero. Forse è finita anche la sua carriera. La NFL ci va cauta – molto cauta – con chi si rompe il crociato.
La storia potrebbe finire qui. C’è già tutto: l’ascesa dell’eroe giovane, la caduta per colpa dell’inganno d’un malvagio, l’imprigionamento, poi la liberazione e una nuova ascesa, il trionfo titanico e inutile, e, subito dopo, la caduta rovinosa, forse definitiva.
Invece la storia continua. Gurley si opera e avvia una riabilitazione lunga e dolorosa, mentre i giornali e le televisioni si disinteressano di lui. Dimenticato, considerato finito a vent’anni, lascia l’università e ricomincia ad allenarsi da solo: anche se riesce appena a fare jogging e a tirar su qualche peso, è deciso ad arrivare nella NFL.
Quando si fa visitare dai dottori di tutte le squadre professionistiche son passati solo sei mesi dall’infortunio, e proibisce a chiunque di stringergli forte il ginocchio non ancora guarito: è quindi nello scetticismo generale che viene ingaggiato dai St. Louis Rams, una squadra di media caratura che decide di scommettere su di lui e gli garantisce quattordici milioni di dollari di contratto in quattro anni.
Gurley dichiara d’essere piuttosto contento: comprerà una casa a sua madre e forse si concederà anche un breve viaggio, prima di tornare a St. Louis a continuare la riabilitazione. Esordisce tra mille cautele e solo per qualche minuto alla terza di campionato contro i Pittsburgh Steelers, ma nelle partite che seguono avvia subito a brillare, come se non ci fosse tutta questa differenza tra le belve della NFL e i futuri commercialisti contro cui giocava al college. Riesce a segnare la sua prima meta contro i Cleveland Browns di Johnny Manziel detto Johnny Football – un altro prodigio e un’altra grande storia, ma di segno opposto – e nella partita seguente, contro i San Francisco 49ers, eccolo passare in mezzo alla difesa avversaria senza essere nemmeno sfiorato – lievemente, bisognerebbe scrivere, e anche elegantemente – e lanciarsi in un’altra gran corsa inarrestabile verso la meta.
Il giorno dopo le televisioni cominciano a chiedersi se non sia proprio Todd Gurley il miglior running back della NFL ma la storia, naturalmente, non finisce neanche qui. Del resto, le migliori non finiscono mai.