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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Ritratto di Hillary Clinton, nata e allevata per diventare presidente degli Stati Uniti

Hillary Clinton, dopo il suo primo, importante comizio della campagna per le presidenziali 2016, è scesa dal palco e ha visto un vecchio amico tra la folla. «Sono contentissima di vederti qui», ha detto a Len Lenihan, ex presidente del Partito democratico nella contea di Erie, nello Stato di New York. Ha sfoderato il suo sorriso a mezzaluna e ha detto fiduciosa: «Ho una buona sensazione! A te non sembra?».
Hillary Clinton stavolta spera che le cose vadano diversamente rispetto a otto anni fa.
L’ex first lady, ex senatrice dello Stato di New York ed ex segretario di Stato dell’Amministrazione Obama, quel caldo giorno di giugno ha parlato a Roosevelt Island, una striscia di terra fra Manhattan e Queens che un tempo ospitava i pazzi di New York in una casa di cura in mattoni, oggi in rovina e sommersa dall’edera. Hillary aveva passato le prime settimane dell’estate a far disperare i suoi sostenitori con una campagna piena di errori che aveva riportato alla luce tutti i vecchi dubbi sulla sua autenticità, sincerità e umanità. Nei mesi successivi, il disorientamento sarebbe cresciuto ancora, con lo scandalo delle email che non riusciva a far dimenticare, con l’improbabile sfida lanciata da un anziano socialista del Vermont che non era capace di ridimensionare e con una serie di proposte dell’Amministrazione Obama che non poteva sostenere.
Nel frattempo, lei ha continuato a presentarsi agli elettori e a ripresentarsi. A un certo punto il suo comitato elettorale ha informato la stampa che sarebbe diventata più spontanea. Il risultato è che la Hillary del 2016 sembra uguale alla Hillary di sempre, eccessivamente calibrata e respingente. La ricerca della “vera Hillary”, come ormai da decenni, prosegue.
Ma in una stagione politica in cui non si parla più di misure concrete e in cui a dominare la scena sono Donald Trump e compagnia, con candidati che si inventano cose di sana pianta e fanno leva su attrattive puramente emotive e scioviniste, c’è anche qualcosa di confortante nel tradizionale approccio clintoniano alla politica, nel suo indefesso sforzo di analizzare la storia e di posizionarsi nel modo più vantaggioso. In un’elezione dove tutti cercano di presentarsi come outsider, è arrivato finalmente il momento di lasciare che Hillary sia Hillary: la professionista della politica temprata da tutte le battaglie, l’insider che è rimasta sempre sotto i riflettori.
La selezione della location non è stata casuale. Hillary ha scelto Roosevelt Island perché evoca il presidente Franklin Delano Roosevelt, il venerato leader Democratico che con il suo New Deal ha salvato l’America dalla Grande depressione. Roosevelt, con la sua fede nell’interventismo dello Stato, è rimasto il punto di riferimento ideologico del Partito democratico fino alla sterzata verso il centro impressa dal marito di Hillary, l’ex presidente Bill Clinton, e dai suoi New Democrats. Tuttavia il crollo dell’economia a Wall Street e la delusione per un presidente che non ha contrastato abbastanza l’allargamento del divario fra ricchi e poveri, ha generato un movimento fieramente liberal e populista, i New New Democrats. Con quel comizio, Hillary ha cercato di riportare i Clinton all’interno della tradizione rooseveltiana e, parlando delle «quattro battaglie» chiave per migliorare il Paese, ha fatto riecheggiare il discorso del presidente del New Deal sulle «quattro libertà».
In migliaia sono affluiti nel parco per assistere allo svelamento della nuova e migliore Hillary Clinton. Famiglie benestanti con passeggino al seguito, provenienti da Manhattan e dai sobborghi residenziali del vicino New Jersey, si sono unite a legioni di giovani maschi tutti con lo stesso taglio di capelli da marines. C’erano i gay per Hillary, i papà per Hillary e tante, tantissime, donne per Hillary. Tutti attratti dalla possibilità che stavolta lei realizzasse lo storico potenziale di potenziale prima donna presidente.
Hillary sperava che l’essere donna bastasse a garantirle lo status di outsider, ma è chiaro che non è un’outsider. Una pletora di politici locali affollava l’area vip. Spiccava per la sua assenza Bill de Blasio che, pur avendo diretto la campagna del 2000 per l’elezione di Hillary a senatrice, si considera un portabandiera nazionale del nuovo progressismo, più in sintonia con la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, che un tempo i sostenitori della Clinton vedevano come la minaccia più seria. «Sono orgoglioso di essere qui», ha detto Tom DiNapoli, comptroller dello Stato di New York. «Questo è il posto di quelli che stanno con Hillary. E io sono felice di stare con Hillary».
I fan dell’aspirante presidente passavano accanto al gruppo spalla, una rock band di Millennial delle zone di Brooklyn meno problematiche e più a misura di bambino. Ma passavano anche accanto a un pannello che rendeva omaggio ai benefattori del parco, fra cui figuravano alcuni dei sostenitori storici di Hillary nell’alta società, come Lady Lynn Forester de Rothschild, Barbara Lee e Carl Spielvogel.
Anche se si presentava come la nuova Hillary, l’ex segretario di Stato era ancora circondata dalla cerchia ristretta di sempre. Parlava da un palco a forma di gigantesca H, puntato verso Manhattan. Tra il pubblico c’era il nuovo staff, ma anche le sue collaboratrici più vecchie e fidate. Mandy Grunwald, la sua consulente per i media, era seduta sui gradini del palco a leggere sullo smartphone, nascosta dietro occhiali da sole extralarge. E mentre Hillary, in tailleur pantalone blu, parlava alla folla, Huma Abedin, la sua collaboratrice più stretta, monitorava la scena con una mise arancione. Quando sono andate via insieme, con quell’abbinamento di colori sembravano due tifose dei Mets.
La nuova Hillary si comportava in modo troppo simile alla vecchia Hillary. Nelle settimane intercorse fra il lancio e il rilancio della sua campagna, era intervenuta in contesti privati, con meno giornalisti possibile. A maggio si era fatta vedere nella casa di Mason City di Gary Swenson e Dean Genth, una coppia gay che ha molta influenza nella politica democratica dell’Iowa. Dopo che Hillary, concluso il discorso, se n’era andata via in tutta fretta col suo entourage, ho parlato con la coppia nel loro salotto, lì dove la candidata pochi minuti prima aveva fatto il suo breve discorso accanto a un cane di ceramica. Ho chiesto se avessero imparato qualcosa di nuovo. «No, nulla di particolarmente nuovo», mi ha risposto Swenson. «E tu?». È seguito un momento di silenzio imbarazzato. «Era più che altro il suo contegno», ha azzardato Genth. «Non c’era quella percezione implicita di autorità, di diritto acquisito, di status, era come le altre persone normali qui in casa».
Quello è stato l’apice della fase degli everyday Americans, degli americani medi. Ma Hillary ha smesso presto di parlare degli everydays, come li avevano soprannominati i giornalisti che seguivano la sua campagna. Era un’espressione che la faceva apparire troppo distaccata. Ha smesso anche di parlare delle sfide che la sua nipotina, l’erede della dinastia Clinton, avrebbe dovuto affrontare: sembrava un po’ troppo.
In quel momento la sua maggiore preoccupazione stava già diventando un’altra: la rivelazione del New York Times di un server di posta elettronica privato con cui Hillary gestiva gli affari di Stato, e forse anche quelli di natura riservata. I giornalisti le facevano domande solo su questo. «Ditemi, ditemi qualcosa che non so», ha canticchiato Hillary avvicinandosi ai cronisti lì in Iowa e accompagnando le sue parole con uno scatto della testa alla Janet Jackson. «Ah ah». Ma ha smesso di ridere non appena i giornalisti hanno ricominciato a chiederle delle email. La polemica ha portato allo scoperto il motivo originario della diffidenza della gente nei confronti di Hillary, vista come una donna inaccessibile, paranoica, di cui non ci si può fidare. All’inizio ha cercato di ignorare lo scandalo. Poi ha cercato di sminuirlo. Poi si è scusata.
Mentre si affannava a trovare la risposta più appropriata, la sua popolarità colava a picco nei sondaggi e un numero incredibilmente alto di americani cominciava a dire che non si fidava della candidata in pectore. In mezzo a tutto questo, succedeva qualcosa di strano.
Bernie Sanders aveva preso il volo. Il senatore socialista del Vermont, a lungo sottovalutato dai suoi colleghi, che lo vedevano come un semplice voto di protesta, riempiva gli stadi. Raccoglieva montagne di fondi con piccole somme, indice di un consenso reale fra la base. La sua candidatura rappresentava una critica implicita alla timidezza istintiva di Hillary, a tutte le giravolte che aveva fatto per decenni, alla sua prudenza. Quando Sanders si scagliava contro il riscaldamento globale era come se puntasse il dito contro Hillary e il suo rifiuto di prendere posizione sull’oleodotto Keystone. Quando attaccava con forza gli accordi commerciali di libero scambio era come se volesse marcare la differenza con il Nafta, il trattato nordamericano firmato quando alla Casa Bianca c’era suo marito, e con l’ancor più ambizioso Tpp di Obama con le nazioni del Pacifico. A peggiorare le cose per Hillary c’era il fatto che da segretario di Stato spingeva per questo patto commerciale, mentre da candidata lo contestava. Soprattutto, il j’accuse di Sanders contro i miliardari di Wall Street, responsabili di aver corrotto il sistema di finanziamento delle campagne elettorali, sembrava un altro attacco contro la Clinton e la sua base di donatori del bel mondo newyorchese, con i nomi incisi sui muri del parco di Roosevelt Island.
Ma per carità non provate a fare a Sanders una domanda su Hillary Clinton. «Vuole scrivere di qualcuno degli argomenti di cui ho parlato? Mica mi farà l’ennesima domanda su Hillary Clinton?», mi ha detto una sera mentre lo accompagnavo alla sua macchina in Iowa, dopo un altro comizio partecipatissimo, in un momento in cui i sondaggi lo davano in testa in New Hampshire e vicinissimo alla Clinton in Iowa.
Ad agosto, la candidatura di Hillary sembrava seriamente a rischio. Un pomeriggio, al picnic democratico della contea di Scott, in Iowa, c’era la ressa per avere i posti più vicini al palco dove doveva parlare Sanders, tutti in piedi sulle loro coperte e con i libri radicali di Howard Zinn. Dentro il capannone, i volontari di Hillary e di Martin O’Malley (l’ex governatore del Maryland, anche lui candidato alla Casa Bianca ma in seria difficoltà), allestivano tavolini per distribuire materiale informativo sui rispettivi candidati. Marianne Bell-Overholt, 58 anni, una volontaria per Hillary, mi ha detto: «Stiamo avendo una buona risposta», con otto persone che si sono impegnate a sostenere la campagna in vista dei caucus di febbraio.
Marianne Bell-Overholt mi ha detto che Sanders non la impensieriva troppo, ma che era preoccupata dall’eventualità che scendesse in campo il vicepresidente Joe Biden: anzi, forse in quel caso avrebbe addirittura sostenuto lui, perché «parlò alla cerimonia della mia laurea, a Davenport, nel 1986». Ma Biden l’ha tolta dall’imbarazzo. L’assoluto predominio di Hillary fra i donatori dell’establishment e l’imponente infrastruttura elettorale non hanno lasciato margine di manovra al vicepresidente. La mastodontica macchina organizzativa di Hillary ha cominciato a dare frutti, al pari della pluridecennale esperienza della candidata sotto i riflettori della politica nazionale.
Durante il primo dibattito democratico, in ottobre, Hillary ha sbaragliato la concorrenza con una performance alla Clinton, altamente competente e palesemente vincente. E Sanders le ha fatto un regalo inaspettato dicendo a chi faceva le domande che era «stufo marcio» di sentir parlare di «queste maledette email» della Clinton, e che il dibattito elettorale doveva andare oltre. Hillary si è voltata alla sua destra e gli ha stretto la mano calorosamente.
Le cose hanno cominciato a girare nella sua direzione. Biden era fuori gioco e Sanders sembrava di nuovo marginale. A quel punto ci hanno pensato i leader repubblicani a darle un altro aiutino. Pochi giorni prima dell’audizione davanti a una commissione parlamentare ostile, creata per indagare sulla morte di alcuni funzionari americani a Bengasi quando lei era segretario di Stato, il capogruppo della maggioranza repubblicana alla Camera ha detto chiaro e tondo, in pubblico e di fronte a una telecamera, che la reale motivazione di quella commissione d’inchiesta era indebolire politicamente Hillary. Questo ha reso meno temibile la commissione e Hillary si è scrollata di dosso le otto ore di interrogatorio come se fossero le briciole del pranzo.
A fine ottobre, nel quartier generale della campagna a Brooklyn, tutto decorato per Halloween, i volti dei componenti del suo comitato elettorale sembravano rilassati. I sondaggi davano Hillary di nuovo nettamente davanti a Sanders in Iowa. Perfino de Blasio, il sindaco di New York che aveva evitato a lungo di pronunciarsi in suo favore, le ha dato il suo endorsement e Hillary non si è nemmeno presa il disturbo di rilasciare una dichiarazione al riguardo. Mentre in Iowa e nel New Hampshire è arrivato il freddo e l’elettorato ha cominciato a concentrarsi sulla corsa alla nomination, la Clinton è tornata ottimista. Sì, lo scandalo delle email incombe ancora su di lei e i repubblicani come Marco Rubio cercano di dipingerla come una persona inaffidabile, una politica di professione, roba del passato. Ma una volta tanto il vento sembra girare dalla sua parte.
I suoi supporter più convinti non hanno mai dubitato. Nell’area vip vicino al palco, a Roosevelt Island, Betsy Ebeling, la migliore amica della Clinton e sua eterna sostenitrice fin dai tempi della scuola elementare nei sobborghi di Chicago, mi ha fatto vedere una collana con un contrassegno su cui era inciso «HRC 2008»: lei e il gruppo ristretto delle migliori amiche di Hillary la portano da anni. Le ho chiesto come pensava che sarebbe andata stavolta. «Gliel’ho sentito nella voce», mi ha risposto. «Stavolta ce la farà».