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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

La destra in Italia non è morta. Semplicemente, dal Dopoguerra a oggi, non è mai esistita

C’è un motivo, se in Italia la così detta destra si è estinta. E Silvio Berlusconi non c’entra niente. Questo motivo è che la destra, come blocco culturale e sociale di derivazione risorgimentale e tardo ottocentesca, è morta dopo la rovina del fascismo, se non già nel fascismo come fenomeno totalitario europeo. Se fossi Gianfranco Fini, insomma, non avrei nulla da rimproverarmi: missione compiuta. Chi dice che la destra italiana l’ha ammazzata lui cade in un errore di prospettiva e in un vuoto di memoria. L’ex segretario del Movimento sociale italiano, poi di Alleanza nazionale, infine di Futuro e libertà, non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze, per poi scioglierlo nell’acido della vanità e dei rancori personali, un equivoco radicato fin dai tempi della peggio gioventù missina germogliata nel secondo Dopoguerra. E cioè nella trincea residuale dei sopravvissuti di Salò, programmaticamente corporativa e collettivizzante, quindi molto di sinistra (oggi potrebbe riscaldare gli inverni di Stefano Fassina e Pippo Civati), ma ben disposta a ibridarsi con schegge monarchiche, nazionalismi para massonici, cesaropapisti e teorici del papa re, golpisti in miniatura, sognatori dal sonno disturbato.
In una parola: neofascismo. Ecco, il punto mi sembra questo: fatta eccezione per la minoranza statistica, ma ben piazzata, degli avatar di Croce e Einaudi (il Partito liberale italiano, per capirci) con pochi e isolati intellettuali al seguito, è almeno dal 1945 che l’Italia non conosce una destra paragonabile a quelle d’oltreconfine. Il Msi, che pure di destra si è detto fin nel simbolo (dal 1972), era appunto un’altra cosa. Dopotutto, fino alla caduta del Muro di Berlino, con Tangentopoli e la discesa in campo di Berlusconi, nella nostra nazione dal sistema bloccato e con il primo partito comunista europeo, c’era la onnicomprensiva Democrazia cristiana a incaricarsi di presidiare, inglobandola in funzione antisovietica, l’area di consenso della destra generalista. E a conti fatti un Mario Scelba (paradossi della storia: l’autore delle leggi più repressive contro i neofascisti) si dimostrò più a destra di Giorgio Almirante, che nacque socialfascista ed era in minoranza quando l’allora segretario missino Arturo Michelini azzardò l’operazione di governo con il dc Tambroni nel 1960, finita male prima ancora d’iniziare. Anomalie nell’anomalia, ci hanno raccontato storici e politologi. Ma chi se ne ricorda più? E sopra tutto, a chi può interessare, oggi? Oggi si contano macerie. Dice: ma il berlusconismo dove lo metti? Mi è capitato più volte di riconoscere come Silvio Berlusconi non avesse nulla dell’uomo di destra: imprenditore craxiano non troppo permeabile, diciamo così, alla tradizione legge-e-ordine, fondamentalmente edonista e mainstream, progressista a modo suo, gay friendly e sdoganatore di costumi e stilemi per lo meno scollacciati (dal Drive In alle cene eleganti); un homo novus in rivolta contro lo Stato onnipotente e devoto alla liberazione del desiderio privato. Quando ancora Matteo Renzi, il suo Royal Baby, girava coi pantaloni corti, il Cav. trionfava e cadeva, si rialzava e ricadeva, come un cumenda libertino e chansonnier, il brianzolo votato all’intrapresa che con molta furbizia scala la piramide sociale in omaggio alla più ingenua oleografia leftist di conio americano. I suoi arcinemici diffidavano del bottegaio di provincia che ce l’ha fatta e se lo sono ritrovato a Palazzo Chigi travestito da popolarissimo uomo di governo della destra, impegnato (senza grande successo, invero) a liberalizzare l’Italia, altra pratica avocata a sé dalla sinistra, sorridente accanto a Tony Blair. Orrore massimo, eresia. Del resto, nel 2000 era stato Claudio Rinaldi a sentenziare così: «Se si esamina l’avvio della campagna elettorale per le elezioni del 2001, infatti, si scopre che a dire qualcosa di sinistra, paradossalmente, non è solo e non tanto lo stato maggiore dell’Ulivo, quanto il capo della destra». Motivo: «Al primo punto del nostro programma c’è l’Italia dei poveri». Quel «Berlusconi che dice qualcosa di sinistra avrà vita facile», vaticinava Rinaldi: «La propaganda del Cavaliere, insomma, non annuncia nulla che assomigli al liberismo selvaggio di cui la destra è solitamente paladina, nulla che evochi lo spettro di un attacco allo Stato sociale; al contrario, propone valori e obiettivi nei quali anche le masse popolari possano riconoscersi». Non soltanto il ceto medio ma anche gli operai, con il loro voto, lo avrebbero in effetti premiato. Poi lui dissipò la dote, certo, circondato com’era da ex dc, da socialisti di ogni foggia (dal lombardiano Fabrizio Cicchitto all’altermondista Giulio Tremoliti, passando per il prof. Brunetta) e dalla sedicente destra finiana, che fu tutto e il suo contrario. E rieccoci al centro della piaga. Dal 2010 in poi, a voler essere generosi sulle sue ambizioni post berlusconiane, Gianfranco Fini ha provato a intestarsi la battaglia del parricida, ma non lo ha mai fatto in nome di un planisfero coerente disegnato da destra e per la destra; a meno di voler sovrastimare la formula della “destra costituzionale” o “europea”, un sarkozismo di rimessa (presto rinfoderato), un legalitarismo generico e più tattico che ideale. Tanto è vero che, una volta tagliati i ponti con il passato, Fini ha espulso la parola “destra” dal proprio arsenale retorico, ma a questa eliminazione sommaria non ha corrisposto alcun disegno identitario. Il risultato di questa meccanica è stato un errare randagio fra i centristi di Pier Ferdinando Casini, il tecno-governo di Mario Monti, le velleità inespresse di Luca Cordero di Montezemolo. Gli elettori hanno fatto giustizia, relegando Fini e i suoi consiglieri nel girone degli esuli in Patria. Anzi dei senza Patria e basta. Così è defunta la destra come sinistra in ritardo, quella che riscopriva Bella Ciao per sentirsi giovane e raccattare un posto nella mensa degli antiberlusconiani, dopo aver divorato le provviste berlusconiane.
Il lascito di questa operazione, il legato testamentario di un suicidio esemplare, è naturalmente aggravato dai limiti culturali, politici e antropologici di quella improvvisata classe dirigente, sulla quale è preferibile non indugiare, ma che alla prova dei fatti e dell’esercizio del potere si è sfarinata nel nulla e ha inoculato il virus del frazionismo missino nell’organismo berlusconiano già debilitato. Tolti i paleomissini che si sono trovati a loro agio nella grisaglia di Forza Italia (Altero Matteoli e Maurizio Gasparri), dei colonnelli di Fiuggi (località del Congresso-lavacro post fascista andato in scena nel 1995) non è rimasto nulla. Un vuoto che nemmeno la callida, simpatica Giorgia Meloni, anima guevarista in corpore tolkieniano, è riuscita a colmare con i suoi Fratelli d’Italia. Anzi, il processo di decomposizione si è arricchito di formule e contorsioni ancora più fuorvianti. E la categoria del populismo ha finito per riassorbire un po’ tutto, come nella raccolta indifferenziata di materiali troppo confusi per essere riciclabili: dai nostalgici di An all’ex comunista padano Matteo Salvini, fino a ieri annidato in un Carroccio secessionista e all’occorrenza costola della sinistra dalemiana (parlandone da viva), oggi capobranco di una Lega delle destre a sfondo patriottico ed eurofobico che esorcizza in silenzio l’ombra di Umberto Bossi non meno di quanto i finiani abbiano fatto con quella di Benito Mussolini.
Drôle de droite. E a voler essere perfidi potremmo contemplare in questo spettro chiamato destra anche qualche venatura millenaristico-settaria del Movimento Cinque stelle, un magnete per rivendicazioni del sottosuolo fra le quali strisciano pulsioni revulsive ed espettorazioni truculente che possono far rimpiangere l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini (è morto nel 1960, e ho detto tutto). Del resto fu proprio Benito Mussolini a scrivere che «Se c’è un Paese dove la vera democrazia è stata realizzata, questo Paese è l’Italia fascista». Basta sostituire la parola “Rete” all’espressione “Italia fascista” e inserire i meet-up lì dove un tempo erano le assemblee dei sansepolcristi.
Sopra questo frenetico rigor mortis, possiamo ostinarci a cercare qualche segnale di vitalità? Se la risposta è il Nuovo Centrodestra, il partito ministeriale di Angelino Alfano, oppure i Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto, il Cameron del Tavoliere, possiamo chiuderla qui e leggere il prossimo articolo. Se no? Lasciamo pure a Berlusconi la neomorta Fondazione Einaudi e il meritato patrocinio sul rimpianto di un sogno senz’ali, quello di liberalizzare e arricchire l’Italia. Una prece, poi, per quella destra improbabile accatastata dalla somma dei convertiti – da Marcello Pera ai post marxisti infecondi transitati nel craxismo e confluiti nel berlusconismo – che è via via scomparsa senza lasciare prole (libri tanti, per lo più intonsi), oppure si è prosciugata dentro un club minoritario, carico di feticci sospesi a metà tra l’Ancien Régime di Joseph De Maistre e la Right Nation statunitense, illuminato da lucciole intermittenti di liberalismo economico (sono quelli che è tutta colpa dello Stato padrone, gli aspiranti privatizzatori del chiaro di Luna), sovranismo etnico (sono sempre gli stessi, però pretendono che lo Stato pianti i fili spinati alle frontiere come l’ungherese Orbàn), fantasticherie borghesi e inconsolabili estetismi clericali. Insomma la destra ai giardinetti. Lascerei in pace la destra tradizionalista, che poi sarebbe la mia, relitto semantico per un’idea metapolitica, metastorica e metafisica che a forza di “meta” finisce per non essere più nemmeno destra. È totalità, corpo mistico, aristocrazia platonica: soviet spartano più elettrificazione spirituale, potrebbero sintetizzare gli antipatizzanti democratici, anche loro in cerca di una destra che abbia un quid politico in un regime democratico. Ma dove? E veniamo a Matteo Renzi. Non perché Renzi sia di destra: il liberismo è di sinistra, ci hanno convinto. Ma insomma che senso ha arrangiare in Italia un’alternativa di destra, adesso, quando c’è un presidente del Consiglio che spazza via la concertazione sociale, spezza i legami corporativi tra i sindacati e Confindustria, abolisce l’articolo 18 e il bicameralismo costituzionale, riforma i beni culturali, la scuola e (forse) le pensioni, supera il complesso d’inferiorità nei confronti della magistratura militante, abbassa le tasse sulla prima casa e vince pure gli Us Open femminili di tennis? Per dirla con parole altrui, quelle che nel settembre scorso ha vergato un ex finiano come Mario Landolfi: «I giornali delle ultime 48 ore scrivono che Verdini è alle prese con il pallottoliere per mettere in sicurezza il governo, che il premier difenderà a Bruxelles l’abolizione della tassa sulla prima casa, che la maggioranza vuole asfaltare RaiTre, che il ddl sulle unioni gay è finito in un cassetto e che il ponte sullo Stretto si farà. Poi ho letto che il Cav. ha annunciato opposizione dura. A chi?». Già, a chi. Drôle de gauche, questa renziana, talmente inedita da assomigliare ai Tory inglesi di David Cameron così come al New Labour di Tony Blair, che a loro volta sono epifenomeni di Lady Thatcher. Ma la Gran Bretagna ha vinto due guerre mondiali e una coppa del mondo, come cantano gli hooligans londinesi, può sopportare certe contraddizioni topografiche tra destra e sinistra, e prima o poi digerirà anche l’ultra leftist Jeremy Corbyn trovandogli un posto d’onore nei titoli di coda d’un film di Ken Loach. La Francia ha vinto una guerra mondiale e mezzo, non si è mai vergognata d’essere sciovinista e un po’ tanto bovara, se appena si oltrepassino i confini di Versailles, bastandole alla bisogna la carta d’identità gollista. La Germania ha perso tutto quel che poteva perdere, ma da Helmut Kohl ad Angela Merkel non ha voluto rinunciare al centrismo autoritario di Otto von Bismarck-Schönhausen che «realizza l’unità germanica e si annette mezza Europa» (Rino Gaetano). La Spagna profonda ha assimilato il franchismo svestendo le divise militari ma tenendosi le sue mostrine con la croce monarchica. L’Italia è una giovane antica signora che ha consumato troni e altari, smembrata dagli stranieri e ricucita dalle mani rozze dei Piemontesi, è la nazione dei troppi partiti alla perpetua ricerca di un Partito della nazione: da destra con Quintino Sella, da sinistra con Agostino Depretis, dal centro con Giovanni Giolitti, dal fronte bellico con Benito Mussolini, da Washington con la Democrazia cristiana e da Mosca con il Pci, da Arcore con Berlusconi. Ora è il turno di Matteo Renzi, post democristiano, post ideologico, post analogico, post tutto o quasi. Perfino post bipolarista, se per bipolarismo intendiamo un sistema in cui destra e sinistra si contendono il potere inclinando verso la terra di mezzo, e includendo le ali estreme a patto di poter musealizzarle. E infatti lui, che come minimo si pensa unto dalla perennitas, ma essendo paraculo la parola “sinistra” non la regala a nessuno, ha traslocato la linea di faglia lungo un asse ludico-generazionale. Non più sinistra/destra ma: modernità/populismi, politica/anti politica, fare/gufare, velocità/inerzia, smart dress/velluto, Sky Atlantic/Intervallo Rai in bianco e nero, fancazzismo/muso lungo... sembra un gioco, tipo direfarebaciareletteratestamento... e invece è la base antropologica per un esercizio inesorabilmente consapevole del potere. E allora l’assenza di una destra in Italia posso spiegarla soltanto così, al contrario, come il calco negativo di un fotogramma in cui il Fantasma dell’Opera chiamato Destra, orripilato dal riflesso della propria bruttezza, è costretto a indossare una maschera evanescente, e vorrebbe mandare in frantumi ogni specchio raggiungibile ma stavolta non può: gli specchi sono tutti a Palazzo Chigi e riflettono solo il Principato di Renzi. Sarà per un’altra volta, sarà per un’altra Italia.