il venerdì, 20 novembre 2015
Viaggio sulle tombe dei grandi scrittori
La vanità di Chateaubriand che si autocertificò immortale e sulla propria tomba non volle inciso nemmeno uno straccio di nome, tanto chiunque si sarebbe ricordato di lui – ne era convinto. La pignoleria non meno egomaniaca di Elias Canetti che perlustrava il cimitero di Zurigo calcolando quale sarebbe stato il posto più giusto dove essere sepolto/venerato. La tomba molto duchampiana di Marcel Duchamp e quella assai poco flaubertiana di Flaubert. La cassetta con le lettere dei fan accanto al sepolcro di Machado e la singolare devozione buddista su quello di Wittgenstein a Cambridge... Da qualsiasi parte si trovino – anche nessuna – i morti sono strambe creature, deboli eppure potentissime.
«Perché andiamo sulla tomba di uno scrittore? Perché riteniamo di conoscerlo meglio di un nostro congiunto. Pensiamo che possa ancora dirci qualcosa e che si accorga di noi che continuiamo a leggerlo. Tutto quel che facciamo con le tombe è irrazionale. Ma questa non è una buona ragione per non farlo» dice Cees Nooteboom, 82 anni, parecchi dei quali trascorsi a zonzo tra sepolture illustri in tutti e cinque i continenti. Nel suo nuovo libro – che ora esce in italiano da Iperborea con titolo spagnolo, Tumbas, da lui giudicato più eufonico – le ha messe in fila: dalla A di Apollinaire alla Y di Yeats. Riflettendoci su oppure lasciando parlare i testi degli insigni. Tipo quello dell’inarrivabile poeta peruviano César Vallejo che in versi postumi preconizzava così la propria morte: Morirò a Parigi nello scroscio/ di un giorno che ho già vivo nel ricordo./ Morirò a Parigi – non m’inganno – come oggi forse un giovedì d’autunno./ Di giovedì sarà... Parole di tempra profetica. Salvo che Vallejo sarebbe morto sì a Parigi, ma un venerdì santo.
Ci voleva tutta la tenera astuzia, tutta la soave ironia di un consumato navigante della letteratura come Nooteboom (alle spalle un’opera torrenziale di romanzi, poesia, teatro, saggi, reportage) per parlare di defunti emeriti senza ruzzolare nel feticismo divistico – che è sempre criptonecrofilo – o nel brividume esistenzialista. «Questi morti» dice, «non si trovano nelle loro tombe, ma nelle pagine che hanno scritto. Il libro non vuole essere che un invito a rileggerle». Come in ogni antologia anche qui spiccano assenti di rango: dobbiamo aspettarci un Tumbas 2? «No. È stata un’impresa già abbastanza lunga e faticosa. Quando con mia moglie, che scattava le foto, avevamo oltrepassato le ottanta tombe ci siamo resi conto che ci mancava ancora gente come Tolstoj o Dostoevskij. Eravamo pronti a metterci in marcia, ma l’editore ha detto: Basta, ché altrimenti il libro mi diventa troppo caro. Del resto, visto il tema, è già cosa audace proporlo». Ha incassato rifiuti, scongiuri? «In America e in Inghilterra non hanno voluto saperne. La morte non è un buon argomento. Nessuno comprerà mai un libro così». Fisime puritane.
Qual è la tomba a cui Nooteboom è più affezionato? «Da proustiano direi quella di Proust. Con lui c’è mezza famiglia. Hai l’impressione di conoscerli tutti. Tra i visitatori in silenzio si crea uno strano contatto, una specie di intimità effimera. Anche se mi sono sempre guardato bene dal chiedere: Anche lei ama Proust? Me ne sarei vergognato come un ladro». Nel libro si immaginano chiacchierate ultraterrene tra personaggi che non si conobbero o che magari si sarebbero detestati: «Degli autori che ci piacciono vorremmo che si piacessero anche tra di loro. Ma non è così. Una volta chiesi a Borges che cosa ne pensasse di Witold Gombrowicz. Immaginavo che un aristocratico dalla vita tanto bizzarra potesse incuriosirlo. Invece nemmeno mi rispose. Ho poi saputo che in privato lo definiva un conte pederasta, uno scrittorucolo. Dai diari di Bioy Casares emerge un Borges orribile, meschino. Leggendoli ci sono rimasto male. Ciononostante, lo considero scrittore molto più grande di Gombrowicz». Oltretutto, dopo averla lungamente cercata al cimitero, la tomba di Gombrowicz la deluse: «Sì, non saprei dire perché. Sembra quella di un maître d’hotel o di un immobiliarista. Succede. Flaubert fu un rivoluzionario ma la sua tomba è quella di un borghesuccio. René Char era un poeta elevato, druidico, ma è sepolto come un possidente della campagna provenzale».
Altri sepolcri sono più in consonanza con l’arte degli intestatari. «Sulla sua tomba Duchamp volle scritto A morire sono sempre gli altri. Ma forse la più impressionante è quella di Stevenson in Polinesia. I samoani trascinarono la bara nel cuore della foresta vergine. Mentre mi arrampicavo avevo anch’io l’impressione di inoltrarmi nel regno dei morti. Ma una volta lassù tutto è paradisiaco. Sotto c’è la vaporosa vegetazione pluviale, l’abbraccio infinito del Pacifico. Anche se non ha nulla intorno, non sembra una tomba solitaria». Tra quanti premeditarono con grande applicazione la propria sepoltura, lei ricorda Canetti. «A nessuno è simpatica la morte, ma lui la odiava come pochi. Anche se, certo, il fatto che a Zurigo studiasse il posto dove essere seppellito potrebbe rivelare un desiderio di morte. A me non verrebbe mai in mente di cercare il luogo in cui metteranno i miei resti. A mia moglie ho detto: Se dovesse succedere, che so, in Bolivia. Lasciami lì e vattene».
Che esprimano strazio, boria, tenerezza, prestigio, le tombe non appartengono ai morti ma ai desideri dei vivi. O, che è lo stesso, dei morti quando erano vivi. Desideri, all’occasione, obesi. Ne sapeva qualcosa François-René de Chateaubriand. Un genio con una considerazione di sé taglia XXL. Sulla tomba – piazzata in cima alle tempestose scogliere della natìa Saint-Malo – ordinò che fosse scritto solo: Un grande scrittore francese ha voluto qui riposare per non sentire che il mare e il vento... «Come se chiunque dovesse sapere che là sotto c’è sepolto proprio lui. Un giorno mi trovavo nei paraggi quando vedo avvicinarsi un gruppetto di escursionisti. Dopo aver letto la lapide, uno dice all’amico: Ma, insomma, chi è? E l’altro: Come, non lo sai? Maupassant!» racconta Nooteboom sogghignando misericordioso al ricordo.