il venerdì, 20 novembre 2015
Vodka e tamburi. Così lo sciamano entra in contatto con Gengis Khan
Lo sciamano tira su un paravento e dice alla ragazza di spogliarsi. Poi le fa bere del latte mescolato alla vodka che versa da una tanica. Comincia a suonare il tamburo alternativamente a dei cimbali, mentre pronuncia chu-sisisisi. Chu si dice anche ai cavalli per spronarli; lui sta invece scacciando lo spirito cattivo: «Vai, vattene». La cerimonia dura dieci minuti, poi l’uomo prescrive la ricetta: «Non puoi lavarti la testa per tre giorni e il corpo per sette. La faccia sì, ma solo con il latte». La ragazza racconta che amici e familiari credono lei «abbia lo spirito» – sia cioè una potenziale sciamana – ma lui le spiega che oggigiorno tutti pensano di avercelo, quello spirito: «Non devi sforzarti per farlo entrare». Lei si riveste ed esce dalla ger – la yurta – mentre lo sciamano già risponde allo smartphone, un pataccone cinese, un «canto lungo» della tradizione Mongola come suoneria. Chiede a qualcuno dall’altra parte da quale regione vengano i suoi genitori. Diagnosi al telefono. Ora tocca a un ometto che ha fatto arrabbiare gli spiriti dell’acqua. Lo sciamano gli sputa della vodka addosso e ripete il rituale a base di chu-sisisisi e tamburo, sostituendo questa volta i cimbali con il khomus – quasi uno scacciapensieri siciliano – mentre la donna del cellulare ricomincia a «cantare» a tutto volume. Lo sciamano risponde e apprende che qualcuno è morto. Mugugna due parole, quindi torna all’uomo tarchiato e gli consiglia di schizzare per aria del latte nei pressi di Nalaikh, semi-fallita cittadina carbonifera a sud di Ulan Bator. Poi c’è un tipo di mezza età i cui genitori «avevano lo stesso sangue» e perciò lui ora ha problemi in famiglia. Qui la cura è semplice: «PregaTengri», il cielo. Quattro Padre Nostro e dieci Ave Maria.
Byampadorj Dondog è uno «sciamano di Stato». L’unico – si dice – che possa entrare in contatto con lo spirito di Gengis Khan. Una specie di Arcivescovo di Canterbury di 68 anni, massiccio, capelli radi che finiscono in un treccia sulla nuca. È anche scrittore e poeta, perché chi parte per il viaggio – cioè pratica la trance – ha di solito anche il dono della creatività. Del resto non è lui a comporre, bensì lo spirito che parla. Riceve tutti i giorni dalle 12 alle 15 in una ger alla periferia di Ulan Bator, montata sul terrazzo di un centro sciamanico sovrastato da un ovoo, il cumulo cosparso di sciarpe azzurre che rappresentano Tengri.
Byampadorj interpreta un antico complesso di credenze che, superata l’era del socialismo mongolo grazie alla trasmissione orale, trova con gli anni Novanta nuova linfa. «Lo sciamanesimo nasce e procede parallelamente nell’area intorno al lago Baikal e nell’odierna Mongolia fin dal quarto millennio prima di Cristo» spiega l’antropologo David Bellatalla, che vive a Ulan Bator. Consiste nell’evocazione degli spiriti adiutori, le entità che hanno iniziato l’individuo allo sciamanesimo e continuano ad assisterlo durante la trance. Spesso sono spiriti del clan, cari estinti tuttora presenti nella vita dei vivi: non vogliono staccarsene.
Quando il buddhismo arriva da sud nei primi secoli dopo Cristo comincia a penetrare contaminando e lasciandosi contaminare dallo sciamanesimo; più a nord, nell’attuale Buriazia russa e su fino al cuore della Siberia orientale, il sistema di antiche credenze continua invece a mantenersi in qualche modo al riparo. Ma contatti e mescolanze tra sciamani mongoli, tuvani, buriati e uiguri proseguono fino all’età moderna.
La provincia mongola nord-orientale del Dornod è un luogo simbolo della rinascita sciamanista. Lì, in epoca staliniana, emigrano i transfughi buriati che fuggono dalla persecuzione dei propri culti e, quando l’Urss crolla, fanno conoscenza con la terapia shock dell’economia di mercato. Cominciano così a imputare la propria condizione di stenti a una vendetta degli spiriti originari, che li vogliono punire per averli abbandonati nei settant’anni di ateismo di Stato. Simile è il destino dei mongoli che in epoca socialista – secondo l’etnologo Manduhai Buyandelgeriyn – pur vivendo una quotidianità sonnacchiosa e lenta, in un regime di scarsità generalizzata, godevano di una certa sicurezza offerta dal governo che, sussidiato dall’Urss, aveva eliminato morti per fame, sifilide, analfabetismo e problemi abitativi. Col cambio di regime nel 1989-90, la violenza del capitale si innesta nal fallimento socialista. Fine delle sicurezze e zero opportunità. Lo sciamanesimo rinasce, perché offre una spiegazione.
Nei primi rituali post-socialisti, gli spiriti accusano i discendenti di averli dimenticati, e li minacciano di ulteriori pene. Chiedono che alcuni membri della famiglia diventino sciamani, al loro servizio. Ed ecco la proliferazione. Molti sciamani si rivelano tuttavia praticoni, il che, paradossalmente, provoca l’ulteriore boom della «professione». Il socialismo ha distrutto gli sciamani veri, il mercato ha creato quelli finti, motivati dal denaro.
Come si riconosce un impostore? Nel 2010 partecipai a un rito in una ger di Chingheltei, la periferia nord di Ulan Bator che è un’enorme favela. Una sciamana di etnia tsaatan mi fece sganciare 60mila tugrik (circa 26 euro) per risolvere il mio «problema», consistente nel fatto di essere uno scapolo inveterato. Naturalmente non erano mica per lei, bensì un’offerta allo spirito. Mi fece inginocchiare di fronte ad alcuni ritratti di Gengis Khan e diede inizio al rituale. Nell’audio che riascolto oggi si sente una voce roca che recita una nenia, interrotta da uno scroscio e accompagnata da un rumore, come un tappeto che sbatte: la donna mi sputava in testa la vodka che io stesso avevo «offerto» allo spirito e ogni tanto mi frustava con un bastone a cui erano attaccati stracci lacerati: un idolo. Sullo sfondo, la televisione accesa trasmette una telenovela coreana. Il tutto durò circa venti minuti e poi mi disse che avrei trovato la donna della mia vita. Nel giro di due anni. «Io non ci credo, ma confesso di avere visto cose incredibili». Alfredo Savino è un milanese che vive da sette anni in Mongolia, dove ha fondato la cooperativa di guide Sain Sanaa (Buona Idea). Ha viaggiato, ha osservato. «Una volta, una sciamana in trance che avrà avuto settant’anni si è arrampicata come uno scoiattolo su per un albero, non so ancora come spiegarlo».
Ma lo sciamanesimo non cura solo le afflizioni dei vivi. Oggi cura anche i problemi identitari della Mongolia in transizione, assediata dalle multinazionali minerarie e da religioni d’importazione. Le antiche credenze provano a istituzionalizzarsi per contrastare buddhismo, islam, cristianesimo. Tra i neo-sciamanisti, c’è desiderio di una religione di Stato che li tuteli e tenga insieme riti ancestrali, orgoglio mongolo e il Khan dei Khan.
La professoressa Zulaagiin Bat-Otgon è ima celebrità. Insegnava fisica e matematica, poi ha sentito una «voce interiore» che la induceva alla ricerca spirituale. Ha sperimentato diversi culti e religioni, fino a trovare le sue risposte nell’«intelligenza del cielo mongolo», come la chiama lei. In Occidente è noto come tengrismo. «Non c’entra con tamburi, guarigioni e rituali» spiega Bat-Otgon. «È a un livello superiore. Il böö del tengrismo non è uno sciamano. Non comunica con gli antenati, ma direttamente con il cielo, raccogliendone l’energia». La donna disegna su un foglio un cono con la punta rivolta in alto. «Lo sciamano sta ai piedi del monte, il böö in cima. Il più famoso è Gengis Khan, che non aveva bisogno di tamburi e altri oggetti per portare in terra l’energia del cielo. E infatti ha creato il più grande impero di pace al mondo. Un böö di tale potenza nasce ogni mille anni». Lo sciamano degli sciamani di cui si attende il ritorno è lui: Gengis. Millenarismo mongolo. Bat-Otgon scarabocchia sul foglio una stella di David. Non le piace quella punta rivolta verso il basso, a cui contrappone lo slancio verso il cielo del suo cono-montagna. Aggrotta le sopracciglia e tira una riga decisa sull’esagramma. Questo, a occhi europei, ha un non so che di inquietante.