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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Metti una sera a cena gli scrittori turchi, quelli che vogliono fuggire da Erdogan

«Vogliamo lasciare il Paese. Trovare casa altrove, per il momento. Stiamo cercando di capire dove farlo». È la sera di lunedì 2 novembre, il giorno dopo le ultime elezioni generali turche. Lo sfondo è un ristorante sul Bosforo, metaforicamente disteso sulla parte europea di Istanbul, di fronte a noi c’è l’Asia.
Dalle urne è uscito un risultato inatteso anche per i vincitori: il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), conservatore di ispirazione religiosa, ha travolto ogni aspettativa e sfiorato la metà dei voti assegnati. Cioè, maggioranza assoluta e possibilità di tornare a formare, come avviene dal 2002 a oggi, un governo monocolore. Nessun sondaggio, nessun istituto di rilevamento, nessun politologo lo aveva previsto. Recep Tayyip Erdogan continuerà a governare il Paese da leader assoluto, rilanciando adesso il suo progetto di modificare la Costituzione per arrivare a una Repubblica presidenziale.
Seduto attorno a un tavolo colmo di cibi locali c’è un gruppo di amici, uomini e donne. Rappresentano la crema dell’intelligentsija turca. Sono scrittori e scrittrici, giornalisti, intellettuali, filosofi, pensatori e docenti universitari. Una manciata di persone, meno di dieci. La sera prima, la domenica elettorale, si sono riuniti in una casa, hanno cenato tenendo d’occhio i risultati sui canali tv meno addomesticati e più affidabili, la Cnn Türk e l’Ntv. E hanno preso la loro decisione.
Il giorno dopo sono tutti qui. Gente che ha passato i sessanta da un pezzo. Menti fra le più brillanti del Paese. Sono sodali di Orhan Pamuk, il Premio Nobel per la Letteratura, più volte minacciato dagli ultranazionalisti per alcune affermazioni sulla questione armena e curda. Amici di Elif Shafak, altra scrittrice celebre della Turchia, anche lei perseguitata per le frasi sui massacri armeni pronunciate in un suo romanzo. Hanno i cuori affranti, e in tasca un piano. Fuggire. In altre circostanze avremmo riso. Ma oggi non si scherza: «L’unica scelta adesso è lasciare il Paese».
Non sono certo i primi intellettuali perseguitati o in fuga dalla Turchia. Basta ricordare il poeta Nazim Hikmet, morto in esilio nel 1963. Il pensiero va a lui mentre, quello stesso lunedì post-elettorale, un altro poeta, il curdo Yilmaz Odabasi, scrive su Twitter: «Sono in Svizzera, ho lasciato la Turchia come segno di protesta politica». Cinquantatré anni, Odabasi fu torturato in carcere ai tempi del golpe militare del 1980. Oggi accusa i suoi connazionali di essere «innamorati del proprio carnefice».
Intanto Cengiz Candar, giornalista esperto di politica internazionale, ha appena saputo di rischiare fino a quattro anni di prigione per aver criticato il Presidente. Lo permette l’articolo 299 del codice penale turco, sotto il titolo «insulto al Presidente». La magistratura turca ha aperto due inchieste a carico di Candar. Il noto editorialista del quotidiano Radikal, secondo le accuse, avrebbe commesso il «reato» in sette dei suoi articoli. Lo spiega lo stesso Radikal, aggiungendo che l’avvocato di Erdogan, Ahmet Ozel, ha presentato una denuncia alla procura di Istanbul.

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Altri intellettuali, più famosi, in sordina, hanno da tempo scelto di trovarsi una seconda casa all’estero. Come Pamuk, che ormai da un decennio da settembre a dicembre insegna alla Columbia University di New York. O Elif Shafak, che passa la maggior parte dell’anno a Londra, dove si è trasferita con i figli e scrive i suoi romanzi.

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A Istanbul sono passati alcuni giorni dalle elezioni quando l’Unione Europea decide di diffondere il rapporto annuale sullo stato di progresso del Paese. Una relazione che era pronta già prima del 1° novembre, ma la cui diffusione è stata posticipata da Bruxelles a dieci giorni dopo, fra molte critiche. Aprendo il dossier si leggono giudizi come «tendenza negativa» per lo stato di diritto in Turchia, o «gravi battute d’arresto» per la libertà di espressione negli ultimi due anni. La risposta di Ankara arriva subito ed è netta: le critiche sono «ingiuste e anche sproporzionate», e «inaccettabili» i commenti sul potere esercitato da Erdogan.

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Da quando Erdogan è stato eletto presidente, ad agosto 2014, i suoi avvocati hanno presentato decine di denunce per presunti «insulti» rivoltigli sul web. Nel mirino molti giornalisti (tra i più noti, Ertugrul Ozkok, Hasan Cemal, Ahmet Altan e Perihan Magden), ma anche semplici cittadini e tanti giovanissimi.
A ottobre Bulent Kenes, direttore del quotidiano Zaman, è stato arrestato per aver parlato male di Erdogan in alcuni tweet. Nello stesso periodo, uno studente 14enne è finito in carcere a Kayseri, nell’Anatolia centrale. I giudici hanno emesso le prime condanne, come quella agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico per un uomo che aveva «insultato» Erdogan su Facebook.

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Al tavolo del ristorante sul Bosforo, gli uomini e le donne che hanno fatto del loro pensiero, delle loro parole e dei libri il fulcro di una vita dedicata alla libertà di espressione, sanno di non essere più liberi di parlare. Citano dati e cifre: sono centinaia i giornalisti licenziati negli ultimi mesi perché appartenenti a giornali, siti e canali televisivi critici con il governo. «Un giorno torneremo» promettono.