La Stampa, 20 novembre 2015
Norimberga, 20 novembre 1945. Alla sbarra i vertici dello Stato nazista
Si apre settant’anni fa, il 20 novembre 1945, il primo processo contro un nucleo di criminali nazisti; il primo di una serie, il più celebre e controverso. Si doveva tenere a Berlino cuore del Terzo Reich. Ma non c’erano edifici adatti, solo macerie e tracce di una battaglia estenuante. Venne così scelta la città di Norimberga, in Baviera nel Sud della Germania, per due ragioni: il palazzo di giustizia e l’adiacente prigione erano ancora in piedi, il valore simbolico di un luogo che aveva ospitato i congressi del partito nazionalsocialista e legato il suo nome alle famigerate leggi del 1935.
Ma il punto principale quando la guerra in Europa volge al termine investe le colpe e le responsabilità. Chi poteva decidere sul confine tra dimensione individuale e responsabilità collettiva dei crimini compiuti? Quale sede, in quale contesto? E soprattutto quali capi di imputazione avrebbero potuto segnare il giudizio sul nazismo e sui suoi protagonisti? Un groviglio di interrogativi che fa da cerniera nel passaggio tra guerra e dopoguerra lungo quel sentiero difficile che i vincitori cercano di tracciare mentre il responso militare si consolida.
La ricerca di una giustizia possibile ha origine negli anni centrali del conflitto quando tutto è ancora in gioco. A partire dal gennaio 1942 alcuni governi in esilio di Paesi occupati dai nazisti denunciano le violazioni ripetute alla convenzione dell’Aia sulla protezione delle popolazioni civili in tempo di guerra; nell’ottobre 1943 con la dichiarazione di Mosca, Churchill, Roosevelt e Stalin vogliono colpire i responsabili dei crimini nazisti. Un’intenzione generica che viene raccolta e codificata con la costituzione di un Tribunale Militare Internazionale (Imt) due giorni dopo il lancio della bomba atomica su Hiroshima, l’8 agosto 1945. Una corte internazionale promossa dalle potenze vincitrici (Usa, Urss, Inghilterra e Francia) per sostenere e qualificare le ragioni del verdetto dei campi di battaglia.
Un’impresa che si snoda a partire dall’individuazione dei capi d’imputazione e dal loro utilizzo. Seguiamo le parole di un «Diario» che ci riporta a quella mattina di 70 anni fa, una sintesi dalla penna dello psicologo americano G.M. Gilbert incaricato di seguire gli imputati nelle tenebre della prigione di Norimberga: «La prima udienza del mattino è stata dedicata alla lettura dell’atroce catalogo dei crimini nazisti. Capo primo: associazione o cospirazione per acquisire il controllo totalitario della Germania. Utilizzo del potere per aggredire Paesi stranieri. Capo secondo: crimini contro la pace. Violazione dei trattati internazionali, degli accordi e delle garanzie». Uno sguardo in sala: «Gli imputati sedevano in silenzio, disattenti, alcuni di loro giocavano col selettore delle cuffie per la trasmissione delle diverse traduzioni simultanee, altri si guardavano intorno studiando i giudici, i pubblici ministeri, i giornalisti e il pubblico». Solo nella seduta pomeridiana si completa il quadro delle accuse: «Capo terzo: crimini di guerra. Uccisione e trattamento inumano delle popolazioni civili, dei prigionieri di guerra. Deportazione per il lavoro forzato. Uccisione di ostaggi. Capo quarto: crimini contro l’umanità: uccisione, sterminio, schiavitù persecuzione per motivi politici e razziali. Terminata la lettura dei quattro capi d’imputazione è toccato alle accuse rivolte ai singoli imputati e alle organizzazioni».
Da quel momento un anno di deposizioni, accuse incrociate, raccolta di prove e testimonianze sotto i riflettori di un mondo scosso dalle atrocità e dai costi della guerra e pronto a voltare pagina. Il 30 settembre 1946 la sentenza: dodici imputati condannati a morte per impiccagione, sette indirizzati verso pene detentive nell’ex prigione militare di Berlino-Spandau, tre assolti. Il capo del Fronte tedesco del lavoro si suicidò alla vigilia dell’inizio del processo. Il tribunale di Norimberga definì il Partito nazista, le SS e la Gestapo organizzazioni criminali. E così calò il sipario sul processo e iniziò il confronto sul suo significato ben al di là dei confini tracciati dalla sentenza e dalle biografie dei 23 imputati.
Tre linee di giudizio, di segno diverso hanno attraversato i decenni che ci separano dalla sentenza. Una critica al carattere celebrativo del processo: le ragioni dei vincitori prevalgono sulla ricerca di giustizia e responsabilità; vaghe le accuse, generici i riferimenti, ristretto il numero degli imputati. Su un altro versante il processo rappresenta un passaggio di svolta per la conoscenza del nazismo e della sua natura, per la diffusione di notizie e informazioni, per il coinvolgimento della Germania nella riflessione collettiva sulle colpe, le responsabilità, i comportamenti degli uomini, su quella zona grigia sfuggente di cui scriverà Primo Levi anni dopo. Viene progressivamente smontata la facile scorciatoia di chi si appella agli ordini ricevuti e alle dinamiche di una catena di comandi che tutto condiziona. Il processo di Norimberga fissa il principio di una giustizia potenzialmente più forte degli individui e degli stati, apre la strada a una ricerca faticosa e contraddittoria per definire principi e valori irrinunciabili di una costituenda Comunità internazionale.