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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Giocare a calcio durante la Seconda guerra mondiale

Nei giorni plumbei degli attentati di Parigi, in cui i potenti della terra invocano con nonchalance il monito funesto «Siamo in guerra», forse gioverebbe andarsi a rileggere le storie di chi la guerra l’ha vissuta e subita sulla propria pelle. La guerra non ha mai risparmiato nessuno, tanto meno quella meglio gioventù atletica e prestante che dai campi di calcio per ben due volte nel secolo scorso si ritrovò a scendere nelle trincee e nei campi di battaglia delle guerre mondiali. Salvate il soldato pallone, il saggio storico-calcistico molto originale di Niccolò Mello, ripercorre questo triste destino che ha accomunato le generazioni dei giovani calciatori chiamati alle armi.
Mario Pagotto e Dino Fiorini erano due pilastri difensivi di quel Bologna anni ’30 «che tremare il mondo fa», uniti dal cuore rossoblù, ma divisi da un destino che li catapultò su fronti opposti, inimmaginabili finché rimasero due eroi della domenica. Nel novembre di ottant’anni fa il giovane furlano (figlio di contadini di Fontanafredda) Mario Pagotto detto Rino, classe 1911, faceva il suo esordio in quel Bologna allenato dal grande Árpád Weisz. Un ebreo errante, Weisz, che alla promulgazione delle leggi razziali del ’38 fu costretto a lasciare l’Italia e sfuggire all’inseguimento dello spettro nazifascista che poi lo acciuffò comunque, assieme a tutta la sua famiglia. Weisz finì i suoi giorni ad Auschwitz: nel lager polacco morì in una camera a gas assieme alla moglie Elena e i loro due figli, Roberto (12 anni) e Carlotta (8). Il maestro Árpád, l’uomo che aveva insegnato a Rino che «osare in campo è sempre meglio che trattenersi», morì il 31 gennaio 1944, un anno dopo che Pagotto si era arruolato nella brigata alpina. Ma anche il ragazzo di Fontanafredda venne preso dai tedeschi e deportato: dapprima in Germania nel lager di Hohenstein e poi in quello polacco di Bialystok nel quale, come tutti i prigionieri, era semplicemente un numero, la matricola DA8659. Tornò ad essere una parvenza d’uomo solo dopo che i russi spinsero lui e i compagni di prigionia fino al centro smistamento profughi di Cernauti (in Bucovina). Con la ricomparsa del pane, che fino ad allora era una chimera, per magia in mezzo a Rino e agli altri “salvati” cominciò a rimbalzare anche un pallone. Così, nel campo vicino alle ba- racche si formò una squadra. Quella formazione composta da undici leoni da troppo tempo in gabbia agli ordini del mister Mariani e del ct Bertello nel torneo di Sluzk (Bielorussia) sbranavano gli avversari e con 18 vittorie in altrettante sfide disputate si fece conoscere come l’invincibile “Quelli di Cernauti”. Prima del ritorno alla libertà la sfida finale fu un derby tutto italiano contro “Quelli di Lambertow” che Pagotto e i prodi di Cernauti sconfissero interrompendo un’imbattibilità durata 33 partite di fila. Rino tornò sano e salvo a casa e riprese a giocare nel Bologna, chiudendo la carriera nella Vignolese.
Il playboy Dino Fiorini detto “il Conte Spazzola”, «sintesi vivente del giovanotto ventenne», come si legge in un articolo del 1937, consumò la sua esistenza con la stessa velocità con cui affrontava le galoppate sulla fascia. «Copre i cento metri in 11 secondi», proseguiva il critico ammirato dallo scultoreo Fiorini, il quale scelse di schierarsi con i repubblichini che combattevano gli Alleati e i partigiani. E questi ultimi in uno scontro a fuoco a Monterenzio, nel settembre del 1944, freddarono il 29enne terzino del Bologna, la cui morte è avvolta in un duplice mistero. La sera prima Fiorini sfrecciava in sella alla sua moto portando con sé il compaesano Angelo Ferrari, un partigiano. Infine, il corpo del ragazzo che aveva fatto tremare il cuore dei tifosi e delle ragazze di Bologna non è stato mai ritrovato.
Se fu quel doppio passo ideologico a tradire Fiorini, il mediano Bruno Neri invece si sacrificò nella lotta partigiana. Il faentino, debuttante in serie B a 16 anni con la squadra della sua città, è stato un esempio raro di calciatore intellettuale. Quando il conte Ridolfi lo volle alla Fiorentina per formare con Vittorio Staccione e Mario Pizziolo la “mediana da sogno”, continuò comunque a studiare – era iscritto all’Istituto di Studi orientali di Napoli – e dopo l’allenamento correva al Caffè delle Giubbe Rosse, dove ai tavoli sedeva con Montale, Landolfi, Carlo Bo e Delfini. Forse nessuno di quell’intellighenzia fiorentina era presente il 10 settembre 1931 all’inaugurazione dello stadio Giovanni Berta (dedicato al giovane squadrista ucciso dai comunisti nel 1921) quando Bruno Neri compì il “gran rifiuto”: davanti alla tribuna gremita dei gerarchi fascisti fu l’unico dei calciatori schierati a centrocampo a non fare il saluto romano. Segnali di una lotta al fascismo che a fine carriera – chiusa al Torino e con tre presenze nella Nazionale del tenente degli alpini Vittorio Pozzo – lo portò a combattere il nemico nazifascista assieme al cugino Virgilio Neri, imprenditore milanese e cattolico fervente vicino a Giorgio La Pira e don Luigi Sturzo. Fu proprio Virgilio che fece di Bruno il “Berni”, vicecomandante del Battaglione Ravenna. Il 7 maggio del 1944 Neri a Bologna diede il suo addio al calcio orchestrando da maestro qual era il centrocampo del Faenza; due mesi dopo, il 10 luglio, il “Berni” assieme al compagno partigiano “Nico” ( Vittorio Bellenghi) nei pressi dell’eremo di Gamogna vennero colpiti a morte in un conflitto a fuoco con i tedeschi.
Il suo compagno in viola Vittorio Staccione, tornato nella sua Torino (in granata vinse lo scudetto del 1926-1927, revocato per il “caso Allemandi”: prima, storica combine) si aggregò con il fratello Francesco, portiere di calcio, ai partigiani piemontesi. Vittorio e Francesco alle idi di marzo del ’44 vennero catturati su segnalazione delle spie dell’Ovra e da Verona furono tradotti al campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, dal quale non fecero più ritorno. «Vittorio e Francesco Staccione sono due dei quasi 6mila italiani che trovarono la morte nell’inferno di Mauthausen», ricorda Mello. Ma anche due martiri del “soldato pallone”.
Sfiorò la stessa fine il “tandem fiumano” Alceo Lipizer e Bruno Quaresima. L’ala scattante Lipizer era nato a Fiume e aveva debuttato a 16 anni nella Fiumana. Il bomber Bruno Quaresima era arrivato nel club quarnarino a 19 anni in prestito dal Vicenza, la quadra dove era cresciuto. Bruno fuori dal campo trovò subito l’amore della sua vita, Carlotta (da cui nacque Maria), in campo con gli assist di Alceo e le sue 28 reti trascinò la Fiumana alla promozione in serie B. Poi fece ritorno alla casa madre vicentina e conquistò un’altra promozione, in serie A. E proprio quando era all’apice e corteggiato da Inter, Juventus e Torino, ecco implacabile il triplice fischio imposto dalla guerra. Con Lipizer si ritrovò a Fiume e ripresero a giocare in coppia nella rappresentativa aziendale di Fritz Todt, patron dell’omonima squadra di calcio Organizzazione Todt.
Sfide pacifiche, quelle dei due professionisti prestati alla ditta Todt, fino a quando non misero in piedi una formazione di ex compagni della Fiumana per affrontare una selezione di soldati della Wehrmacht. I tedeschi vennero umiliati con un “cappotto” confezionato dai giocolieri Lipizer-Quaresima che per l’onta provocata vennero puniti con un viaggio a Mühldorf am Inn, un sottocampo del lager di Dachau. Era il novembre del 1944 e per fortuna la loro prigionia fu breve, grazie all’intervento delle truppe alleate, che liberarono il campo il 2 maggio 1945.
Tornati alla vita civile Lipizer fu chiamato della Juventus, Quaresima «dopo aver salvato il Vicenza a suon di gol» venne finì all’Inter. Nella stagione 1947-1948 viaggiava al comando della classifica cannonieri con 16 gol e avrebbe sicuramente coronato il sogno di indossare la maglia azzurra della Nazionale, ma un grave infortunio lo riportò alla sua dimensione di grande bomber di provincia. In compenso con Alceo era scampato agli orrori e i tragici controsensi del conflitto mondiale sui quali Karl Kraus aveva avvertito: «La guerra in un primo momento è la speranza che a uno possa andar meglio, poi l’attesa che all’altro vada peggio, quindi la soddisfazione perché l’altro non sta per niente meglio e infine la sorpresa perché a tutti e due va peggio».