Focus, 20 novembre 2015
Racing Drone, uno sport nato negli Usa, recentemente sbarcato in Europa, che promette adreanalina pure senza mettere a rischio la propria vita
L’adrenalina pura delle gare motoristiche vere, abbinata alla sicurezza di non correre alcun rischio di farsi male, come accade nei videogame: è la formula magica che sta alla base del successo del “drone racing”, il nuovo sport nato qualche anno fa negli Usa, ma che di recente è sbarcato in Europa (e conta già centinaia di appassionati anche in Italia) dove a sfidarsi in pista sono particolari droni da corsa.
IN PRIMA PERSONA. Se state pensando ai grandi multicotteri impiegati dalle tv per riprendere video dall’alto o di cui si parla per i più svariati, possibili, impieghi futuri (recapito di posta e medicinali, operazioni di polizia ecc.) siete fuori strada.
I protagonisti di queste sfide sono droni piccoli e leggeri (i “mini racer”) che a bordo hanno solo l’essenziale: la scocca (o frame, in carbonio o plastica), quattro motorini elettrici a elica, la batteria ai polimeri di litio, la radio (per ricevere gli “ordini” dal telecomando) e, piazzata a prua, una telecamera che invia in diretta le immagini al visore indossato dal pilota. Proprio quest’ultimo elemento ci svela perché, nonostante questa disciplina abbia già dato vita a diverse varianti, tutte contengano nel nome una sigla: Fpv, che sta per First person view, ossia visione in prima persona. E ci spiega anche l’adrenalina di cui si diceva all’inizio: con il visore calato sugli occhi (e spesso con le cuffie sulle orecchie per isolarsi dai rumori circostanti) chi sta ai comandi dimentica di essere comodamente seduto su una poltroncina e vive il volo in modo “immersivo”, proprio come se si trovasse a bordo del drone: «L’emozione è davvero indescrivibile», racconta Massimiliano Pozzani, tra i fondatori di Fpv Grand Prix, l’associazione dilettantistica italiana gemellata con Aerial Grand Prix, un’organizzazione di piloti che ha filiali in tutto il mondo. «La prima volta mi tremavano persino le gambe per le vertigini, mi sembrava quasi di essere nella cabina di pilotaggio di un jet!». Del resto, anche se le velocità in ballo non sono certo supersoniche, parliamo comunque di bolidi capaci di toccare i 100 km/h e a volte persino di superarli.
COME SONO FATTI. In commercio esistono droni “ready to fly”, ossia già pronti (i prezzi vanno da circa 200 euro in su), ma i campioni se li fanno costruire su misura per le proprie esigenze: «Io uso un racer che raggiunge i 120 km/h», racconta Giuseppe “BadSide84” Rinaldi, terzo in una gara a Marsiglia qualche settimana fa, «costruito apposta per me da un amico progettista. E studiato affinché, in caso di impatto, tutta l’elettronica, batterie comprese, rimanga protetta». Non si tratta di un dettaglio di poco conto: generalmente, infatti, le gare consistono nel percorrere a tutta velocità un percorso pieno di ostacoli (porte, tunnel e bandiere) che mettono a dura prova le capacità dei piloti (le manovre vengono eseguite manualmente, senza l’aiuto del Gps, che questi droni non hanno) ma anche la resistenza dei mezzi, perché non è raro vederne qualcuno andare a sbattere contro una barriera e perdere pezzi. Anche per questo motivo sul campo di gara è allestita un’area attrezzata (un po’ come i box della Formula Uno) dove i piloti possono provvedere personalmente a riparare i loro piccoli bolidi, oltre che effettuare modifiche e sperimentare nuove soluzioni.
NEGLI STADI. In Italia, al momento, le gare ufficiali si svolgono in parcheggi sotterranei, in edifici abbandonati, o in altri spazi al chiuso autorizzati (per esempio in occasione di fiere, eventi ecc.) e sempre nel rispetto delle misure di sicurezza imposte dal regolamento Enac, l’autorità che regola il trasporto aereo nel nostro Paese. «Con qualche accorgimento, però», spiega Pozzani, «si potrebbero organizzare competizioni in stadi di calcio o in campi lontani dai centri abitati, “ingabbiandoli” con reti che corrono lungo tutto il perimetro del tracciato, come avviene negli Stati Uniti». A proposito di sicurezza, durante le gare a ogni pilo ta viene assegnato un “controllore” (in gergo spotter), che segue a vista il relativo drone e ne controlla lo spazio circostante: in caso di emergenza lo spotter può intervenire direttamente sul telecomando del pilota e spegnere i motori.
LE REGOLE. Detto di come sono fatte queste particolari “macchine da corsa” e come si presentano le piste dove si sfidano, non resta che scoprire le regole del gioco. Insomma: come “funziona” una gara? Esistono diverse specialità: ci sono le competizioni individuali, dove trionfa il pilota che effettua nel minore tempo possibile il numero di giri previsto, e quelle a squadre, dove i droni sfrecciano nel circuito tutti insieme (a gruppi di 6 o più, suddivisi in team) e alla fine vince chi ha messo insieme il minor tempo complessivo. In certe gare, per vincere, non conta (solo) la velocità: succede in alcune specialità “freestyle”, dove i piloti devono compiere giravolte e altre manovre acrobatiche davanti ai giudici che, come accade nella ginnastica o nel pattinaggio, alla fine assegnano loro un punteggio. E le novità sono continuamente all’orizzonte: «Il drone racing ha possibilità di sviluppo infinite», spiega infatti Scot T. Refsland, organizzatore della US National Drone Racing, la gara più importante del mondo, che all’ultima edizione ha visto ai nastri di partenza circa 120 piloti provenienti da tutto il pianeta.
«Un esempio? Di recente», racconta Refsland, «abbiamo portato un gruppo di piloti a effettuare un sopralluogo alle isole Hawaii, dove l’anno prossimo si svolgeranno i Campionati del Mondo. Con l’occasione abbiamo anche inventato una nuova forma di freestyle, che abbiamo chiamato “Cliff Surfing”: i piloti portano in alto il loro drone, poi lo fanno scendere in picchiata il più vicino possibile alla scogliera e devono “richiamarlo” prima che si schianti contro le rocce. E un brivido simile a quello che si prova lanciandosi con un paracadute, ma che tutti possono sperimentare!».