ItaliaOggi, 20 novembre 2015
Obama non va in guerra perché non ha più bisogno del petrolio, ha lo shale oil
Lo confesso, pur essendo notoriamente critico, in termini politici, economici, di costume, verso la Classe Dominante, in momenti come questi trovo divertente la parte peggiore della stessa, l’intellighenzia radical chic che dà a costoro, tutti concentrati sul potere, una spolverata di cultura. Per dimostrare che non temono il Daesh (chiamano così l’Isis come atto di eroismo colto, perché secondo loro tale denominazione fa arrabbiare il Califfo, pensa te), alcuni di questi hanno trovato una formula geniale, dicono, orgogliosi: «Sono andato a cena a Parigi». È la nuova locuzione simbolo per essere a la page.
Sembra una frase banale, subito fa venire in mente le «belon» (novembre ha la “r”, quindi è mese giusto per le ostriche), invece no, per costoro, questo è un atto di coraggio che assume valenze di simbolo, «per non farsi condizionare dal clima di terrore impostoci, vogliono farci cambiare il nostro stile di vita, non ci riusciranno». E loro non vogliono cambiare stile di vita, of course. Se intervistati, si allargano fino alle banlieue (in realtà, mai avrebbero il coraggio di prendere RER per andarci sul serio), sostenendo che proprio lì Marine Le Pen è fortissima (sic!). Sono degli inguaribili superficiali.
Curioso il loro mutamento genetico verso la guerra, che probabilmente, per 20 anni, hanno tenuto gelosamente nascosto negli anfratti del loro animo. Dopo anni di pacifismo peloso, finalmente possono far emergere i loro istinti guerrieri. Come è lontana quella notte fra il 17-18 gennaio del 1991 quando i bombardieri americani sganciavano migliaia di bombe su Bagdad, costoro si auguravano, in silenzio, che la contraerea di Saddam ne buttasse giù almeno un paio. Lo spettacolo era meraviglioso, il cielo terso, solcato dai traccianti della contraerea impotente, su uno sfondo da videogioco, reso verde dalle telecamere ad alta densità, con la voce dolce di giornaliste avvolte in sensuali tute mimetiche. Appena finito il bombardamento, si precipitavano, con velo d’ordinanza, a cercare e filmare corpi maciullati di civili iracheni, meglio se piccoli sciiti. Che notte.
Dopo una settimana, il momento magico delle emozioni, delle frasi a effetto, della politica modello D’Urso, sta per finire. Hollande ormai ha deciso, farà una guerra spietata. L’inizio è stato farraginoso, solo 25 bombe in due notti, malgrado il supporto di intelligence e logistico degli (fino a ieri, odiati) americani, di contro nessun civile ucciso, certo neppure terroristi, ma la volontà è granitica, con il coordinamento dei russi di Putin (fino a ieri, odiato) le cose miglioreranno. Quindi chiede di applicare l’art. 42.7 del Trattato di Lisbona, che obbliga gli altri Stati europei a dare aiuto e assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione all’alleato aggredito. La risposta non è stata esaltante, tutti si dichiarano formalmente d’accordo, sottovoce tutti, prudenti, si chiedono «vediamo cosa ci chiede». Comunque, grazie a Putin non sarà un flop.
Mentre Hollande inizia la guerra con piglio ducesco, confortato dai sondaggi (85% dei francesi a favore, come Bush ai tempi del 9/11: attenzione, l’emotività fu brutti scherzi!), curiosamente Obama sostiene di averla già vinta. Che guerra è se uno la inizia e l’altro dice di averla già vinta? In realtà, per Obama, la guerra è effettivamente finita, ormai non ha più bisogno del petrolio mediorientale, grazie allo “shale oil & gas” americano ha raggiunto l’indipendenza energetica. Saluta gli europei e torna a casa. Fine di un Impero.
La Chiesa è ancora ferma alle parole in libertà di Bergoglio «Si deve fermare l’aggressore ingiusto, ho detto fermare, non bombardare». Chiaro? No. Mettiamoci nei panni di Renzi, che dovrebbe fare? L’opzione più seria è «comprare tempo», rimanere nel gruppone, vedere come vanno a finire le operazioni militari franco-russe, limitandosi a dare un po’ di supporto logistico. Per comunicare le ovvie ambiguità della sua politica, doveva trovare un magico hashtag, è rimasto un paio di giorni defilato a riflettere, poi eccolo: «soft power». È locuzione perfetta: per i nostri guerrafondai (intellettuali di destra/sinistra-leghisti-fratellini italiani) c’è “power”, per i pacifisti (“renziani”, “berlusconiani”, sinistra-sinistra-grillini) c’è “soft”.
In fondo, “soft power” è la versione 2.0 della politica estera democristiana anni ’50, ispirata da Mattei e da Valletta, poi realizzata da Moro, Craxi, Andreotti, con l’aiuto del Pci di Berlinguer. Un vestito su misura per noi italiani, un Lebole taglio classico, senza tempo.