Sette, 20 novembre 2015
Capire l’industria del lusso con Lang Lang che suona Bach
L’altro giorno sono andato a Ginevra ad assistere a un’esibizione del pianista cinese Lang Lang. Conoscete Lang Lang. Ha 33 anni, ha venduto milioni di dischi, ha scritto un’autobiogafia di grande successo in cui racconta che si innamorò del pianoforte quando lo vide suonare da Tom in un cartone animato di Tom & Jerry all’età di due anni (Tom suonava la Rapsodia ungherese n. 2 di Franz Listz). Quando aveva nove anni suo padre cercò di buttarlo giù dalla finestra dello squallido appartamento di Pechino, da dove erano arrivati dalla provincia profonda, perché lui aveva fallito il suo primo esame di ammissione al conservatorio della capitale.
A Ginevra Lang Lang non ha suonato quella rapsodia di Listz e non ha fallito l’esame. Ha interpretato le Stagioni di Tchaikovsky, poi il Concerto italiano di Johan Sebastian Bach, infine cinque studi di Chopin e ha chiuso con un motivo popolare cinese e una danza cubana. Non si è neppure portato sul palco gli spartiti, non ne aveva alcun bisogno. A sera inoltrata, quando sono uscito dalla Victoria House di Ginevra, avevo capito qualcosa di più sull’industria globale del lusso: quella che potremmo definire il settore, in piena esplosione, dell’alto di gamma di tutte le espressioni della vita dei consumatori.
Non prendetela nel modo sbagliato. Lang Lang è un grandissimo pianista, suona con sbalorditive facilità e abilità nel trasmettere la sua passione. La sua interpretazione del russo Tchaikovsky è stata fedele e profonda, poi però è passato a Bach e lì è successo qualcosa che mi ha fatto riflettere. Se ascoltate una vecchia registrazione del Concerto italiano suonato per esempio da Arturo Benedetti Michelangeli, senza neanche cercare interpreti d’Europa centrale o orientale come Sviatoslav Richter o Aldred Brendel, vi accorgerete di quanto sia diversa. Benedetti Michelangeli trasmette la purezza quasi matematica del pensiero del compositore, il dubbio e i problemi ad ogni passaggio, la sua fede metafisica. Lang Lang no. Lui dà l’impressione di interpretare se stesso attraverso Bach e offre un prodotto perfetto, bellissimo, elegante, rotondo. Senza le sfumature.
In parte dipenderà da un fattore culturale. Quale interprete italiano o tedesco o russo oserebbe rendere con questa bravura un pezzo di musica cinese di fronte a un pubblico cinese? Ci sono elementi della cultura tedesca e europea di Bach che Lang Lang ha dovuto apprendere da zero, non ci è nato e cresciuto dentro. Sarà per questo, ma sembra più a suo agio con compositori dell’Europa orientale, meno lontani da lui, come appunto Tchaikovsky, Chopin, o Rachmaninov.
Impatto di mercato. C’è però anche qualcos’altro che mi porta all’economia del lusso nel ventunesimo secolo. In qualche modo Lang Lang capisce che il pubblico in tutto il mondo non gli chiede una resa filologica di una cultura che solo una minoranza dei consumatori globali oggi conosce. Ciò che è richiesto per il massimo impatto di mercato è un prodotto con caratteristiche che rimandino a una cultura “locale” (nazionale), certo, ma standardizzate. Gli angoli acuti vengono smussati in nome di un linguaggio globale. Il bello come bene di consumo deve essere fruibile da tutti e Lang Lang lo ha istintivamente capito.
In fondo è la stessa ricetta che ha sostenuto l’industria italiana o francese della moda o del lusso in questi anni di crisi. I prodotti di Yves Saint Laurent o di Ferragamo sono profondamente francesi o italiani, ma soprattutto contengono un’idea di Francia o d’Italia abbastanza fruibile anche da persone molto lontane. È questa la ricetta che ha trasformato il lusso, come la musica di Lang Lang, in un vendibilissimo fenomeno di massa.
I più critici diranno che questa è «cultura in stile McDonald», banalizzazione del bello. Non so. Di certo è una tendenza del mercato vincente nell’alto di gamma. E senza Lang Lang, milioni di persone oggi non avrebbero mai sentito parlare del Concerto italiano di Bach.