La Stampa, 20 novembre 2015
Il marketing del Califfato tra riviste patinate e video hollywoodiani
Che cosa vogliono gli islamisti e come vogliono ottenerlo. La risposta ce la danno loro stessi. Nei video e nelle pubblicazioni di propaganda. La più articolata è in Dabiq, mensile online che ora ha anche una versione cartacea patinata. Il 12° numero, mese di safar nel calendario islamico, è uscito cinque giorni dopo il massacro di Parigi. Riassume tutta la strategia: glorificare i propri successi, minacciare nemici esterni e interni, offrire una prospettiva terrena e ultraterrena ai propri seguaci. Già nell’ottobre del 2014, sempre su «Dabiq», l’Isis annunciava attacchi di massa in Occidente e la volontà di «conquistare Roma». Un programma più che una minaccia.
Capacità di reazione
Con gli attentati, quando purtroppo ci riescono, e ancor più con la tempistica delle rivendicazioni, gli jihadisti sono riusciti finora a «dettare l’agenda». Anche ai media occidentali. «Dabiq» numero 12 apre ovviamente con gli attentati di Parigi. Ma l’aspetto più interessante è la rivendicazione dell’abbattimento dell’Airbus russo sul Sinai. Quando gli egiziani negavano che si trattasse di un attentato, e i russi tacevano, con un audio dal Sinai l’Isis prometteva: «Vi diremo come abbiamo fatto, ma quando vogliamo noi. Vi stupiremo». E a pagina 3 della rivista ecco mostrata la «lattina-bomba» usata nell’attacco. I jihadisti hanno stupito e hanno guadagnato in credibilità.
«Siamo uno Stato»
La realizzazione del programma è l’ossessione dell’Isis. Gran parte dei video, quelli che non «bucano» gli schermi occidentali, sono dedicati alla costruzione del Califfato, all’educazione e ai servizi sociali. Lunghe carrellate di aiuole e strade riparate, cibo e soldi distribuiti ai poveri. E scuole. Dove si vedono bambini che studiano e imbracciano il kalashnikov. Come a pagina 35 dell’ultimo numero di Dabiq. Corano e moschetto. L’altro elemento della propaganda serve a disciplinare i seguaci. I riferimenti «all’ascolto e all’obbedienza» coranici sono fitti. Le critiche agli altri gruppi islamici «murtaddin» cioè apostati, servono a indicare la via. Al Qaeda per esempio è accusata di non aver applicato la sharia nella città yemenita di Al Mukalla, conquistata quattro mesi fa.
Il notiziario dalle province
Lo Stato islamico è lì per «espandersi e resistere». Il bollettino di guerra fa una carrellata delle operazioni provincia per provincia, comprese quelle in Egitto e Libia. Ma la prospettiva non è solo terrena. Il fine è la battaglia che darà il via alla fine del mondo, a Dabiq, villaggio al confine fra Siria e Turchia. Un mito che ha dato il nome alla rivista. Abu Mus’ab al Zarqawi, il fondatore dello Stato islamico in Iraq, la citava già nel 2004: «La scintilla è stata accesa in Iraq e il fuoco crescerà finché le armate crociate saranno bruciate a Dabiq».
Il riconoscimento
Gli attacchi sono giustificati anche in questo senso escatologico, cioè sul destino finale dell’umanità. I «crociati» vanno provocati e attirati a Dabiq. Dopo la battaglia ci sarà il giudizio finale, al yaum al din. E i «buoni» risorgeranno. Ma come sempre nell’Isis religione e politica si mischiano. E il risvolto terreno ce lo rivela l’articolo di John Cantlie, il reporter britannico da tre anni ostaggio. In tuta gialla, quella dei detenuti non ancora destinati al patibolo, Cantlie accenna a una «tregua», «prevista dalla sharia». Il Califfato non disdegna una pausa, potrebbe sospendere gli attentati. L’alternativa è quella annunciata nel video di ieri: «Cinture esplosive e autobomba in proporzione alla frequenza dei raid: la Casa Bianca diventerà nera con il nostro fuoco».