Corriere della Sera, 20 novembre 2015
Sulla fine dell’Impero austro-ungarico
Mi capita fra le mani l’autobiografia dello scrittore austriaco Stefan Zweig, protagonista della cultura europea dei primi decenni del Ventesimo secolo i cui libri, con l’avvento al potere di Hitler, finirono al rogo. In essa vi leggo che la seconda delle due «convulsioni mondiali» rappresentò il crollo irreversibile di un mondo: la «finis Europae», quale estrema conseguenza della «finis Austriae». L’Europa, secondo Zweig, è perduta da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fraterna e mai una generazione ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale. Di questa sua interpretazione mi ha colpito quella riguardante la «finis Europae» conseguenza della «finis Austriae». C’è del vero in ciò? Se sì, come spiegarlo?
Alessandro Prandi
Caro Prandi,
La fine dell’Impero austro-ungarico ha prodotto una letteratura della nostalgia di cui il maggiore esponente, dopo Zweig, fu probabilmente un brillante scrittore austriaco, Joseph Roth, autore di due romanzi ( La marcia di Radetzky e La cripta dei cappuccini ), pubblicati in Italia da Adelfi. Nostalgico, sin dal titolo, è anche il Requiem per un impero defunto, un saggio storico di François Fejtö apparso in Italia presso Mondadori più di venti anni fa. Ma la nostalgia è dovuta in buona parte all’esperienza delle grandi crisi che hanno sconvolto l’Europa nei decenni successivi. Nella fase conclusiva del conflitto e durante le trattative per i trattati di pace, i sentimenti dominanti e i criteri da adottare per la ricostruzione dell’Europa erano altri. Il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, ammirava Giuseppe Mazzini e nel decimo dei suoi quattordici punti scrisse: «Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità». Non proponeva la disintegrazione dell’Impero asburgico, ma dava un segnale che altri avrebbero raccolto e amplificato.
Fra quelli che lo raccolsero vi fu un gruppo di uomini politici e giornalisti italiani che organizzarono a Roma, nell’aprile del 1918, un convegno dei popoli soggetti all’Impero austro-ungarico. Parteciparono rappresentanze di cecoslovacchi, jugoslavi, romeni, polacchi, e della delegazione italiana fecero parte il direttore del Corriere Luigi Albertini, Giuseppe Antonio Borgese, Luigi Federzoni, Gaetano Salvemini e il direttore del Popolo d’Italia Benito Mussolini. I delegati proclamarono la lotta comune dei loro popoli contro l’Austria-Ungheria, «strumento della dominazione germanica e fondamentale ostacolo alla realizzazione delle loro aspirazioni e dei loro diritti». Come è ricordato in un libro recente curato da Francesco Leoncini per l’editore Kellermann, fu costituita in quella occasione una Legione cecoslovacca che combatterà con l’esercito italiano sul Piave e più tardi in Russia contro l’Armata Rossa.
Alla fine della guerra, quando le trattative per la pace non erano ancora iniziate, molti fatti compiuti avevano già modificato la carta d’Europa e Vienna era ormai soltanto la capitale del piccolo Stato che la Germania di Hitler avrebbe annesso dieci anni dopo. La nostalgia è un sentimento umano, spesso nobile. Ma l’impero asburgico era oramai, come nel titolo del libro di Fejtö, irrimediabilmente defunto. Oggi il destino dell’Europa, anche se non piacerà agli euroscettici, è quello della Unione europea.