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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Trecento pagine di romanzo ambientate tutte in una stanza. Richard McGuire racconta la sua ossessione per il tempo

Inizia e finisce in una stanza. Più di trecento pagine con un’unica ambientazione: detta così potrebbe sembrare l’epifania della noia e invece Here, Qui in italiano, è uno dei graphic novel più eccitanti mai pubblicati. Attraverso la prospettiva fissa dell’angolo di un salotto si narra la storia di un luogo e di quello che vi è accaduto nel corso di centinaia di migliaia di anni. Non a caso l’autore è un personaggio poliedrico, che non ha mai accettato confini. Si chiama Richard McGuire, ha cinquantotto anni ed è in Italia per promuovere la versione “definitiva” del suo capolavoro, pubblicato per la prima volta nel 1989 come ministoria di sei pagine e oggi rinato in una nuova veste. Gentile, affabile, spiega come è nata questa sua ossessione per il tempo, anzi per l’essere nel tempo. E si abbandona ai racconti di una vita trascorsa a cavallo di mondi diversi. “Da dilettante”, dice lui, perché quando non si è professionisti, tutto è ancora possibile.
Illustratore, disegnatore di fumetti, ma anche di giocattoli, autore di libri per bambini e di film di animazione, musicista della scena post-punk dei primi anni ’80... Lei sembra non avere limiti.
«Mi piace lavorare a cose differenti, anche se l’arte è il mio primo amore: ho disegnato tutti i poster per la mia band, i Liquid Liquid. Nello stesso periodo mi sono innamorato dei graffiti e ho deciso di andare sulla strada. Sono diventato amico di Keith Haring e Basquiat ben prima che diventassero famosi. Erano semplicemente ragazzi con cui ci si incontrava nei club. Ci si aiutava: “Occhio, sta arrivando la polizia!”, cose così».
In quel periodo ha iniziato a lavorare a “Qui”, che però ha preso forma quasi trent’anni dopo.
«Tutta la mia carriera è stata così. Ho iniziato a lavorare per uno studio di animazione, poi ho smesso, ho fatto i giocattoli e mi sono dedicato ad altro. Nel 2000, grazie a Chris Ware (un altro tra i più stimati autori di graphic novel, ndr) firmai un contratto per Qui. Solo che mi venne offerto di andare in Francia per un film di animazione e il progetto rimase in sospeso. Là feci due film: uno con il vostro Lorenzo Mattotti e altri artisti come Charles Burns».
Come è nata la prima versione di “Qui”, quelle sei pagine apparse sulla rivista Raw nel 1989?
«Ero appena andato a vivere in un nuovo appartamento e mi interrogavo su chi avesse vissuto lì prima di me e quando un mio amico informatico mi ha parlato di un programma che si chiamava Windows, si è accesa una luce: “Windows of Time”, “le finestre del tempo”! Io non avevo mai pensato di fare fumetti ma avevo visto Raw di Art Spiegelman e mi aveva molto colpito, così ho fatto di getto queste sei tavole».
Grazie a Spiegelman ha anche iniziato a collaborare con il “New Yorker”...
«Quando sua moglie, Francoise Mouly, è diventata direttrice artistica del New Yorker, mi ha chiesto di collaborare. Da allora ho fatto una trentina di copertine, tra cui una con una persona che attraversa la strada, scomposta a seconda delle epoche in una maniera molto simile a Here».
Dietro quest’opera c’è un lavoro incredibile: alberi genealogici, schizzi, carte geografiche, ricordi personali.
«Sì, molte foto vengono dalla mia famiglia, altre le ho raccolte grazie a un collezionista. La mia famiglia è comunque il centro, tutti hanno collaborato alla ricerca del materiale della timeline anche se all’inizio erano un po’ nervosi. Non volevano che venissero messe in piazza storie troppo personali. Avevo scritto veri e proprie racconti, poi ho iniziato a lavorare per sottrazione, tagliando e tagliando».
Una metodologia molto zen.
«Il libro doveva avere un ritmo e qui è stata utile la mia esperienza come musicista: ho appeso tutte le pagine ai muri del mio studio e ogni giorno toglievo qualcosa fino a quando l’equilibrio tra la parte visiva e quella dei testi cantava la sua canzone».
Quanto tempo ha impiegato?
«Direi circa tre anni. Uno per la ricerca della documentazione su cui è basato: bisognava risalire al passato di quell’area, diari, foto, archivi, documenti antichi».
La stanza che viene rappresentata attraverso le epoche è proprio quella della sua famiglia?
«Non è esattamente quella, ma volevo che ci fosse un camino da una parte e una finestra dall’altra per una questione di bilanciamento. Ci assomiglia abbastanza comunque».
Dove si trovava la casa della sua famiglia?
«In New Jersey, a quarantacinque minuti da Manhattan».
Lei viene dall’underground e lavora per riviste sofisticate come il New Yorker. Esistono ancora controcultura e cultura mainstream?
«Esistono ma si confondono e hanno bisogno l’una dell’altra. Oggi artisti come Jeff Koons o Julian Schnabel sono sicuramente influenzati dall’arte sequenziale. È una cosa che dura dai tempi di Warhol e Lichtenstein».
Qual è il suo vero mestiere?
«Non mi sento un professionista a nessun livello. Non voglio esserlo. Preferisco non sapere dove sto andando. C’è una cosa che nello zen viene definita “mente del principiante”: nella mente del principiante tutto è possibile. Il professionista invece può andare in una sola direzione, così preferisco non essere troppo “professionista”. Sarà l’etica punk...».