la Repubblica, 20 novembre 2015
Di spie e di zie. Il diario di Siegmund Ginzberg, che per anni ha viaggiato in diversi continenti come inviato dell’Unità
Ci sono zie magiche come Perla, di mestiere entraîneuse e star della vita notturna praghese d’inizio Novecento. Da fiabesca antenata di Pretty Woman, Perla s’imbatte in un cliente che le depone in mano un assegno con tanti zeri e le domanda di sposarlo, svelandole d’essere uno dei magnati più danarosi della Cecoslovacchia. Ci sono zie meno fortunate come la malinconica Dolceta, sola contro l’ostilità dell’universo e così piena di complessi di persecuzione da finire in manicomio. Ci sono spie come lo zio Bernard, che al pari del Limonov di Carrère cambia tumultuosamente identità e cognomi, sfoggia sui passaporti facce sempre nuove e lotta con fede incrollabile per la rivoluzione comunista. Attorno a queste figure sbalzate in primo piano, scorrono come fluviali sfondi masse di bambini abili in trasformismi spionistici, preti allucinati che delirano in armeno aggirandosi per i bassifondi di Costantinopoli, folle di ebrei massacrate dai nazisti, orfani incrudeliti dalla fame e dalla perdita di padri uccisi da regimi autoritari di colori opposti, agenti segreti che hanno gli stessi vizi alcolici e dongiovanneschi di James Bond.
Questo e altro c’è in Spie e zie, il diario genealogico, se così si può chiamarlo, dello scrittore e giornalista Siegmund Ginzberg, che per anni ha viaggiato in diversi continenti come corrispondente e inviato dell’Unità. Sono avventurose e diramate le sue radici familiari: il nonno paterno, durante uno degli esodi cui furono costretti gli ebrei dell’Europa orientale, raggiunse dalla Romania Costantinopoli, partendo da Costanza e costeggiando il Mar Nero. Tra i suoi cinque figli il secondogenito Paul sarebbe divenuto il padre dell’autore di Spie e zie, nato a Istanbul nel 1948 e cresciuto parlando turco, ladino sefardita e francese, mentre a casa si parlava yiddish. Solo uno dei tanti aspetti del vorticoso melting pot che lo ha plasmato.
Immergendosi in cronache d’epoca attraverso la ricostruzione di vicende individuali, Ginzberg si muove dentro la spirale del farsi e disfarsi dell’Europa nella prima, violentissima fetta di Novecento. Un mondo che, seppure lontano, sa dirci tanto sui nodi identitari del nostro presente, sull’infrangibilità di muri che ci segmentano nonostante tutto, sui germi di un’unità continentale culturalmente e politicamente artificiosa, cresciuta sopra un intreccio pluridecennale di guerre, menzogne, rancori, rivendicazioni e conflitti di etnie.
Concepito come un susseguirsi di episodi, il racconto prende ogni volta le mosse da una vecchia fotografia o dall’immagine di una città, filtrata dal fantasticare del narratore. Mettiamo Parigi. Qui, nei primi anni Trenta, avviene l’incontro fra Paul, futuro padre di Siegmund, e il fratello Bernard, che vuol portare i congiunti nella Russia del socialismo. Riesce a persuadere solo Benjamin, il membro più giovane e plasmabile della famiglia, del quale d’ora in poi perderemo le tracce. Saranno invece chiare quelle di Paul, scandite in più tappe: ragazzino delle pulizie nel quartier generale degli Alleati a Costantinopoli, tra armeni, turchi, greci, sefarditi ed ebrei con cognomi “tedeschi” che simpatizzano coi “verdi” islamici; ospite in Cecoslovacchia della sorella Perla; condannato ai lavori forzati in una cupa Anatolia insieme ad altri ebrei; giocatore d’azzardo a Istanbul; disoccupato nella Milano anni Cinquanta dove si è trasferito col figlio Siegmund e la moglie Sara.
Ma ancor più di Paul è lo zio Bernard l’eroe di questi taccuini che rincorrono esistenze consumate fra pogrom e traslochi. Da giovane, a Istanbul, opera ai vertici della propaganda comunista e si fa arrestare a più riprese ma la fa sempre franca. Poi, da quando s’imbarca come clandestino per l’Unione Sovietica, appare e scompare nei momenti più imprevisti. Probabilmente Bernard equivale a Eugen Fried, scopre la nostra guida Siegmund Ginzberg studiando e confrontando le loro foto. E Fried non è altri che il fantomatico e celebre “compagno Clément”, l’uomo inviato da Mosca a Parigi negli anni Trenta per seguire il Partito comunista francese. Tanto ne condizionò le sorti da ispirare la creazione del Front Populaire, che avrebbe portato al governo del socialista Blum.
Nel 1943 Eugen Fried, alias Clément, alias “Le Grand”, forse Bernard, cadde sotto i colpi di un revolver in un’imboscata a Bruxelles. Il corpo non fu mai ritrovato. Non ci furono necrologi né medaglie. Nei dossier della Gestapo non c’è mai il suo nome. Furono i nazisti a eliminarlo? O i sicari di Stalin? O montò una messinscena per sparire? Non ci è dato di saperlo. Intanto circonda la minuzia e potenza del suo ritratto un popolo di comprimari sempre interessanti. Ecco l’ebreo Stavisky, al centro di una storiaccia di malcostume finanziario-politico, finito “suicidato” nella Francia anni Trenta; ecco Sergei Mrachkovsky, stalinista duro e puro, capace di farsi convincere da Stalin che per il bene del partito e della causa bisognava confessare qualsiasi cosa gli fosse chiesta, anche crimini mai commessi; ecco il comunista Doriot, incoronatosi predicatore del sacro egoismo nazionale, che finì per simpatizzare con Hitler e ai cui comizi roventi alcuni lo salutavano col pugno chiuso e altri col braccio teso. E altri ancora, in un inesauribile gioco delle parti.