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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Lo scacchiere del “grande gioco” mediorientale. Ecco perché nessuno vuole davvero cambiare i rapporti di forza

Nessuno ha davvero interesse a turbare il caotico equilibrio del Medio Oriente. Perché vorrebbe dire stabilire vincitori e vinti. È questa la ragione per cui, dopo la strage di Parigi, i protagonisti sembrano così restii a cambiare strategia per contenere l’Isis e gestire il disastro della Siria. Ecco gli schieramenti e gli interessi sullo scacchiere del “grande gioco” mediorientale.  
Greggio e sciiti, il triplo Iraq
La fondazione del sedicente Stato islamico è stata in Iraq, a Mosul. Da lì Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato il Califfato nel giugno 2014, dopo averla conquistata. La situazione oggi è questa: il governo guidato dal premier sciita Haider al-Abadi è quello che avrebbe più interesse a contenere l’Isis. Ma più cerca il coinvolgimento di potenze straniere (Russia e Stati Uniti) per stabilizzare il Paese, più iracheni sunniti rischiano di essere attratti nell’orbita dell’Isis. Ci sono i combattenti curdi, i peshmerga, che sono in prima linea e ottengono vittorie anche rilevanti come a Sinjar, strappata al Califfato proprio il giorno della strage di Parigi. Ma l’Isis conserva il controllo di pozzi petroliferi che gli permettono di ottenere fino a 100.000 barili di greggio al giorno che riesce a vendere sottocosto per un incasso annuo stimato attorno ai 400 milioni. Non si conosce ancora l’impatto dei raid americani e francesi di questi giorni che potrebbero aver ridotto il numero di pozzi in mano agli uomini del Califfo.
 
L’Iran gioca solo sulla difensiva
L’Iran è la potenza sciita della regione mentre l’Isis è cresciuto nel mondo sunnita. L’azione del regime di Teheran in Iraq non è stata tanto contro l’Isis, quanto a difesa della comunità sciita, che è maggioranza (ma esclusa dal potere durante la dittatura di Saddam Hussein). I sunniti iracheni, ora esclusi dal potere, non hanno opposto resistenza all’ascesa dell’Isis. L’Iran è stato importante nell’arginare l’avanzata dell’esercito del Califfato verso Baghdad, ma si trova a beneficiare del caos creato dall’Isis, soprattutto perché destabilizza il mondo sunnita. La crisi siriana è degenerata anche perché la Russia, che ha difeso a lungo il regime del dittatore Bashar al Assad, era decisiva per gli Stati Uniti nel negoziato sul nucleare iraniano. Che si è chiuso, dicono i critici di Barack Obama, in modo abbastanza positivo per Teheran che può continuare il suo programma atomico, sia pure più lentamente e sotto sorveglianza. Non si poteva affrontare il caos siriano prima di aver chiuso l’accordo con Teheran che, a sua volta, è da sempre una delle potenze di riferimento del regime di Assad in Siria. Se gli Stati Uniti decidessero un maggiore impegno in Iraq o Siria, l’Iran reagirebbe male e le conseguenze potrebbero manifestarsi in modo cruento soprattutto attraverso le milizie sostenute da Teheran, come Hezbollah. Tra le ragioni alla base della linea di cautela dell’Italia nel dopo-Parigi c’è anche l’impiego dei militari italiani in Libano. Sarebbero tra i primi a rischiare rappresaglie da Hezbollah.
 
I sauditi vincono (quasi) sempre
L’Arabia Saudita, sunnita, non è priva di responsabilità nell’ascesa dell’Isis che destabilizza un Paese filo-sciita come la Siria e mina l’egemonia sciita anche in Iraq. Il caos rende inevitabile per i Paesi occidentali – dagli Stati Uniti all’Italia – continuare a fare perno sulla stabile monarchia dei Saud. Riyad ha appena comprato bombe per 1,2 miliardi – scrive il Sole 24 Ore – proprio dagli Usa, arrivando a 100 miliardi in cinque anni. Armi che userà anche nello Yemen contro i ribelli Houthi, sciiti, nell’indifferenza occidentale. Il regime di Riyad ha in mano un’altra leva potente: se tagliasse la produzione facendolo salire il prezzo del greggio (nel cartello dei produttori Opec) farebbe rifiatare banche e imprenditori che negli Usa hanno investito sull’estrazione di petrolio dalle rocce, ma renderebbe più ricco l’Isis con il suo contrabbando petrolifero.
 
Il doppio fronte della Turchia
Il presidente turco Erdogan è stato accusato di essere indulgente con l’Isis perché colpisce i curdi iracheni indebolendo così la causa indipendentista e allontanando ogni progetto di Kurdistan. Ma Ankara è nemica dei curdi turchi, non di quelli iracheni, come dimostra la recente costruzione di un oleodotto che porta il petrolio da Erbil (capitale dell’Iraq curdo) al centro turco di raffinazione di Ceyan. Dall’inizio della guerra civile in Siria nel 2011, la Turchia ha ospitato oltre un milione di profughi siriani. Più forte è l’Isis, maggiore è la pressione sulla Turchia.
 
L’ambiguità del Kuwait
Il piccolo Stato del Kuwait non può permettersi il lusso dell’instabilità, incuneato tra Iraq e Arabia Saudita. Nel 2011, il generale Al Sisi prende il potere in Egitto con un colpo di Stato, insieme a quella egiziana perde potere anche la Fratellanza musulmana kuwaitiana, da sempre politicamente molto rilevante. Indeboliti i Fratelli musulmani, trovano spazio i salafiti, dalle loro organizzazioni caritatevoli sarebbero passati anche finanziamenti ai movimenti terroristi come l’Isis. Il governo del Kuwait resta uno dei più filo-occidentali, comprerà da un consorzio di imprese europee (capofila Alenia-Finmeccanica) caccia Eurofighter per 8 miliardi. Il Kuwait è anche socio del Fondo strategico della Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe difendere le imprese italiane più rilevanti.