20 novembre 2015
In “Certi momenti” Camilleri inventaria alla rinfusa, seguendo il ritmo disordinato, volti noti e ricordi dell’esistenza
Paolo di Paolo sul Messaggero
La vita è fatta soprattutto di «certi momenti», dice il titolo del nuovo libro di Andrea Camilleri, da oggi in libreria: Certi momenti (Chiarelettere, pp. 168, euro 15). Piccole e grandi rivelazioni che passano per l’intensità degli incontri. Gente frequentata, amata o sfiorata. Gente da cui abbiamo imparato qualcosa, gente che con una frase ci ha spostato – anche solo di un centimetro – la prospettiva sulla realtà, ha acceso un’idea. Camilleri inventaria alla rinfusa, seguendo il ritmo disordinato dell’esistenza, volti memorabili in un libro commovente anche per la struttura. Mette sullo stesso piano i personaggi illustri – Croce, Vittorini, Gadda, Pasolini – e le persone cosiddette anonime: zii, compagni di scuola, amici.
La mescolanza di personaggi vuole suggerire che non ci sono gerarchie nei ricordi importanti?
«Certo, nessunissima gerarchia. Non conta che posto occupava nella società chi ha detto una frase o compiuto un gesto, l’importante è proprio quella frase, quel gesto ti sono entrati dentro e hanno in qualche modo contribuito a farti essere quello che sei, a farti pensare quello che prima non pensavi. Quando ho voluto scrivere questo libro mi sono rifatto agli incontri cercati, ma ancor di più a quelli casuali che oggi, a novant’anni compiuti, mi sono rimasti indelebili nella memoria».
A volte anche gli incontri mancati – come quello con lo scrittore Antonio Tabucchi – possono avere una loro importanza…
«Vero. L’ho cercato, ci siamo inseguiti attraverso lettere, cartoline, telefonate, ma non lo reputo un incontro mancato ma a maggior ragione l’assenza ha fatto sì che le nostre due essenze abbiano potuto sfiorarsi».
Tra gli incontri con persone lei ogni tanto inserisce anche l’incontro con libri. La sua vita senza i libri letti e amati le sembrerebbe molto più povera?
«Non sarebbe esistita, sarebbe sotto la soglia della povertà. Come dice giustamente Umberto Eco, i libri mi hanno permesso di vivere delle esistenze che non avrei neanche avuto la possibilità di concepire».
Lei non sembra una persona nostalgica. Però la sua memoria appare fresca e precisa in queste tessere narrative. Che rapporto ha con il passato e più precisamente con il racconto del passato?
«Il mio rapporto con il passato è un filo continuo, non ho interruzioni con il passato, e il mio passato è ancora più presente quando narro».
La sua passione di narratore quanto ha a che fare con figure della sua infanzia come Minicu, quel tipo di raccontatore istintivo che, senza aver letto un solo libro, sembrava essere più fantasioso di tutti gli scrittori del mondo?
«Moltissimo, perché, vede, questi pescatori, questi contadini che nel novantanove per cento dei casi non sapevano né leggere né scrivere avevano una grandissima capacità di narrazione orale che veniva dalla tradizione dei cantastorie. Non esisteva il cinema, non c’era la televisione, la radio, i libri. I contadini alla fine della giornata di lavoro, o durante le pause, si radunavano e ce n’era sempre uno che raccontava storie. Storie anche epiche che derivavano dalla tradizione dei paladini di Francia ed io con queste sono cresciuto».
Andrea Camilleri sul Fatto Quotidiano
Tabucchi aveva appena pubblicato Piazza d’Italia, il suo primo libro, quando trovandomi a Pisa un amico mi chiese se volessi conoscere l’allora esordiente. Risposi subito di sì, perché ero rimasto molto colpito dalla scrittura di Tabucchi, così semplice in apparenza e così elegante e raffinata nella sostanza, senonché all’ultimo momento un imprevisto mi costrinse a rinunciare all’incontro. In seguito lessi tutti i libri che lui andava via via pubblicando, fino al suo capolavoro, Sostiene Pereira. Quel romanzo addirittura mi entusiasmò: finalmente in Italia uno scrittore si impegnava su un tema così alto come quello della libertà individuale. Chiesi a dei conoscenti se era possibile conoscere Tabucchi di persona, ma ne ebbi una risposta negativa: lui ormai da anni non viveva più in Italia ma in Portogallo.
Quando, per ragioni di lavoro, andai a Lisbona e mi ci trattenni per un mese, cercai naturalmente Tabucchi, ma mi venne risposto che si trovava all’estero. Era come un rincorrersi, un gioco a rimpiattino. Poi finalmente sembrò che fosse arrivato il momento buono. In occasione di un convegno promosso dalla rivista MicroMega, durante il Salone del Libro di Torino, eravamo tutti e due relatori dello stesso incontro. Ma anche stavolta il destino ci beffò: Tabucchi non poté intervenire perché aveva avuto un piccolo incidente, e quindi partecipò solo per via telefonica. A un certo punto i nostri due nomi cominciarono a trovarsi affiancati nei giornali che ci intervistavano sulla situazione politica italiana: la cosa straordinaria era che le nostre risposte quasi sempre coincidevano, come se le avessimo concertate prima.
Un giorno, mentre me ne stavo nel mio studio, squillò il telefono: era lui. La telefonata fu breve e in un certo senso molto strana. “Pronto? Sono Antonio Tabucchi”. Venni veramente colto di sorpresa. “Ciao” risposi. “Come stai?” “Bene, volevo solo sentire la tua voce”. Rimasi ancora più disorientato, non seppi che rispondere; continuò lui a parlare: “Ciao, mi ha fatto piacere sentirti, a presto”, e chiuse la comunicazione. Non ebbi più notizie di lui per circa sei mesi, fino a quando mi arrivò una cartolina illustrata da Atene. Diceva semplicemente: “Un saluto da Antonio Tabucchi”. Nel corso degli anni seguenti di queste cartoline provenienti da città diverse dell’Europa ne ricevetti due o tre.
Ora, siccome non metteva mai l’indirizzo, io non sapevo dove mandargli una risposta qualsiasi, ma desideravo sempre più conoscerlo di persona. Finalmente un giorno di marzo del 2011 ricevetti una chiamata da Antonio: “Fra tre giorni dovrei essere a Roma, te ne darò conferma e stavolta, cascasse il mondo, dobbiamo conoscerci. Ti richiamerò appena arrivo per stabilire l’appuntamento”. Attesi con una certa ansia la sua telefonata, che arrivò puntuale ma solo per dirmi con voce desolata che il suo progetto era saltato. Ecco, Tabucchi per me è stato un amico mai conosciuto personalmente.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 2012, Anna Dolfi curò un suo volume postumo intitolato Di tutto resta un poco, che raccoglieva scritti vari di letteratura e di cinema. Con mia gran dissima sorpresa, in un articolo che Antonio aveva pubblicato in morte di Elvira Sellerio e che mi era sfuggito, lessi una decina di righe dedicate a me: non come scrittore, ma come uomo e come siciliano. In quelle parole, che mi commossero profondamente, trovai la chiave del suo desiderio di conoscermi; che del resto era reciproco. E questa paginetta che gli sto dedicando vuole essere un ringraziamento postumo alla sua amicizia.
Livio Garzanti
Quando alla fine del 1979 terminai di scrivere il mio secondo romanzo, Un filo di fumo, lo feci leggere a Ruggero Jacobbi, il quale se ne entusiasmò. Lui aveva già recensito il mio primo libro, Il corso delle cose, (…). Ruggero per me fece un grande gesto d’amicizia: prese il dattiloscritto, andò a Milano e lo diede a Gina Lagorio, che era una notevole scrittrice e all’epoca compagna dell’editore Livio Garzanti (in seguito si sarebbero sposati). Dopo una settimana ricevetti una telefonata entusiastica della Lagorio, nella quale mi annunziava che aveva passato il dattiloscritto al suo compagno.
Trascorsero pochi giorni ancora e ricevetti un’altra telefonata. “Sono Livio Garzanti”. Non ebbi il tempo di aprire bocca perché lui continuò: “Ho letto il suo romanzo, mi è piaciuto veramente tanto. Lo pubblicherò. Mi farò presto vivo con lei”. Attesi con ansia questa chiamata, che arrivò una diecina di giorni appresso. “Sono Garzanti. Può venire domattina alle dieci nel mio albergo?”. “Certo! Qual è il suo albergo?”. “Il nome in questo momento non me lo ricordo, è quello proprio accanto a Montecitorio”.
A Roma, benché fosse aprile, c’era un’aria tiepida che annunciava un’estate calda. Mi vestii come tutti i giorni e poi andai in cucina a bermi il secondo caffè, ma ero molto ansioso e nervoso. Feci un gesto maldestro e mi rovesciai addosso la tazzina, macchiandomi il vestito. Avevo due vestiti di ricambio, ma uno era in lavanderia e l’altro era un completo fumo di Londra da occasioni solenni: non mi restava che indossare quest’ultimo. Alla reception dell’albergo, oltre al portiere, c’era un uomo che chiacchierava con lui vestito con un paio di jeans malridotti e una camicia che non si poteva dire di bucato. Dissi al portiere di annunziare al dottor Garzanti che Camilleri era arrivato. A questo punto il portiere guardò l’uomo che fino a un momento prima chiacchierava con lui, il quale si voltò verso di me, mi osservò dall’alto in basso e poi disse: “Ecco il pirla dell’autore esordiente che si presenta al suo editore in abito da cerimonia”. Reagii prontamente: “Ed ecco il pirla dell’editore miliardario che per ricevere l’autore esordiente si maschera da barbone”. Questo scambio di battute non era certamente un buon inizio. Invece lo fu.
Ci facemmo subito un’immediata simpatia reciproca. Garzanti era notorio per essere un caratteraccio, estroso, imprevedibile, dalle sfuriate leggendarie: addirittura su di lui uno scrittore aveva imperniato un romanzo intitolato Il padrone. Durante quel primo incontro Livio mi annunciò che avrebbe stampato subito il libro in modo che fosse già in circolazione alla fine di giugno, poi mi invitò a pranzo. Parlò quasi sempre lui, raccontandomi quello stesso giorno di un suo viaggio in America con il padre e di come durante quel soggiorno americano fosse riuscito del tutto a liberarsi del dominio paterno.