Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Che tipo era Abaaoud e come mai l’antiterrorismo francese se l’è lasciato scappare

PARIGI. L’uccisione di Abdelhamid Abaaoud attenua, in queste ore, non cancella, il fallimento del sistema antiterroristico francese. E di quello europeo, incapace di coordinare una valida azione delle varie intelligence nazionali. Ricevuta la conferma che, grazie alle impronte digitali, il corpo lacerato dai proiettili della polizia, a Saint-Denis, la mattina di mercoledì, era stato identificato con certezza e si era rivelato proprio quello del giovane belga-marocchino ricercato, Manuel Valls si è affrettato a informare l’Assemblea nazionale. La quale ha reagito con un applauso. Il breve annuncio, fatto dal primo ministro con evidente soddisfazione, dava una notizia rassicurante, perché annullava un pericolo, e aveva un effetto lenificante sulla bruciante senzazione di avere subito una sconfitta. Quest’ultima espressione è appropriata, trattandosi di una guerra, come ripete François Hollande. L’avversario ha infatti compiuto un’incursione nella capitale lasciando sul suo passaggio 130 morti e centinaia di feriti senza che la difesa riuscisse a impedire la strage. Dopo le forti emozioni, la caccia agli assassini, in larga parte raggiunti e uccisi a loro volta, e gli indispensabili riti del lutto nazionale, gli interrogativi si moltiplicano.
Perché le autorità e le loro intelligence, da anni a confronto con la minaccia terroristica, non sono riuscite a prevenire il massacro? A progettarlo sarebbe stato Abaaoud, conosciuto nello Stato islamico come Omar al-Sussi. La sua eliminazione non è di poco conto. Quel giovane di 27 anni, prima sfaccendato, poi latitante dopo la condanna a vent’anni per rapina, è diventato in breve il responsabile di un’offensiva terroristica contro il Belgio, dove viveva in una famiglia di immigrati, e contro la Francia, colpevole di bombardare la Siria. Il suo prestigio presso chi comanda nello Stato Islamico doveva essere notevole. Era spietato e aveva coraggio. Nelle fotografie l’espressione passa dal cinismo alla spavalderia. Non è banale. Ci sono lampi di una giovinezza in apparenza senza angoscia. Ai suoi uomini spiegava come si doveva uccidere. I teatri affollati di ragazzi, suoi coetanei, dove si tenevano concerti rock, offrivano ottime occasioni. L’ha dimostrato la strage del Bataclan. Inoltre Abaaoud non si tirava indietro. Sapeva mantenere il sangue freddo. Forse grazie alle anfetamine o ad altre droghe. Il fanatismo a volte non basta. Va sollecitato. Abaaoud era in un sobborgo della capitale, dopo l’ eccidio del 13 novembre, mentre migliaia di poliziotti gli davano la caccia. Non si è dato alla fuga. E non è del tutto escluso che fosse per le strade di Parigi la sera del venerdì di sangue. Suo padre, Omar, pacifico commerciante di abiti a Bruxelles, l’aveva ripudiato. Ma in compenso lui aveva la stima dei capi di Raqqa, la capitale dello Stato Islamico in Siria, dove era stato spesso per addestrarsi, per consultazioni, per preparare gli attentati in Europa. Parigi non era un debutto. In fatto di attentati aveva un ricco passato. Si capisce che la sua eliminazione sia stata accolta dalle autorità francesi come un successo di rilievo. Lo è. Ed è altrettanto comprensibile che molti cittadini della Quinta repubblica, e della stessa Europa, abbiano accolto la notizia con sollievo. Come una vendetta compiuta, pensando ai cellulari che hanno suonato per ore, senza dare una risposta a padri e madri inquieti, tra i cadaveri del Bataclan nella notte di venerdì. Ma la morte di Abaaoud non è una risposta agli interrogativi sull’incapacità francese, europea, di prevenire il massacro.
Molti terroristi erano francesi. Erano schedati. Quasi tutti avevano precedenti penali, piccoli furti, aggressioni, truffe, ma anche rapine. Le conversioni al jihadismo, al salafismo, erano avvenute spesso in prigione. La polizia, non solo francese aveva dunque negli archivi i loro nomi, E molti segnali indicavano azioni in preparazione. Li avevano dati compagni di carcere, informatori, o le polizie dei paesi alleati.
Le Monde riferisce che la sera dell’8 ottobre l’aviazione francese ha bombardato un campo d’addestramento a Raqqa, dove si trovavano dei francesi e dei francofoni. Al tempo stesso il ministero della Giustizia, a Parigi, designava in un documento riservato con nome e cognome Abdelhamid Abaaoud come l’ispiratore di un attacco a «una sala di spettacolo». I servizi francesi avevano dunque elementi importanti ma non erano in grado di analizzarli e di intercettare in tempo i commando di kamikaze. La massa di informazioni da trattare e il numero di persone da sorvegliare costituivano un problema. Non è l’incompetenza ma il sistema, che rende difficile raccogliere e aggiornare i dati di 11700 persone da sorvegliare in permanenza, 1500 delle quali con particolare riguardo. La burocrazia e le procedure sono gli ostacoli denunciati dagli addetti ai lavori. Ostacoli che hanno permesso ad Abaaoud, giudicato il pericolo numero uno, per le sue implicazioni in almeno cinque attentati, in Francia e in Belgio, e in un numero imprecisato di tentativi falliti, e ad altre centinaia di personaggi sospetti di muoversi con disinvoltura, senza rischi, tra la Siria e l’Europa, attraverso la Turchia e la Grecia.
Dopo la strage di Charlie Hebdo, nel gennaio scorso, di fronte alle strutture dell’Unione, che rendevano difficile la sorveglianza dei movimenti nella zona Schengen, Matteo Renzi ha suggerito come rimedio la creazione di un’agenzia europea dell’informazione. Ma la maggioranza dei paesi, Francia in testa, ha rifiutato la proposta. Si è valsa del Trattato di Lisbona dove è precisato che l’intelligence riguarda le singole nazioni. Condividerla sarebbe una violazione della sovranità. Oggi il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, chiederà ai partners europei una collaborazione più intensa e leale. Non pare soddisfatto dell’aiuto fornito dalle capitali amiche. Egli ne solleciterà uno più aperto, meno condizionato di quello praticato finora sul piano bilaterale, spesso con reticenza. L’emergenza e la necessità di uno scambio più intenso delle informazioni hanno attenuato gli orgogli nazionali. La minaccia dei terroristi inafferrabili che si muovono seminando morti induce alla ragione. Per adesso si ha l’impressione che i nostri paesi affrontino la minaccia in ordine sparso, o che a volte siano riluttanti a spartire le notizie con gli amici europei.