Panorama, 19 novembre 2015
Il giudice Carnevale smonta il processo su Mafia Capitale
Come sto? Senta, valesse anche per me la vecchia regola militare per cui in zona d’operazioni l’anzianità viene calcolata doppia, dovrei avere fra i 140 e i 160 anni. Quello che ho subito io non lo ha subito nessuno».
Corrado Carnevale di anni ne ha 85. È andato in pensione a 83, il 9 dicembre 2013. Volontariamente. Ha subìto un milione di processi e 100 milioni di titoli di giornale: «Il giudice ammazzasentenze». «Il giudice in mano alla mafia».
Era una fola crudele e strumentale per motivi di politica bassa, di basso moralismo e con l’aiuto, più imbiancato di un sepolcro, della parte più bassa del mondo cattolico, abituata peraltro a pavoneggiarsi come la più alta. È stato assolto un milione di volte. E quei 100 milioni di titoli, per cui nessuno mai ha ritenuto di scusarsi, suoneranno a vergogna perenne del giornalismo nazionale. Condannato una volta in appello, salvo essere assolto con la formula più ampia in Cassazione, uno come Marco Pannella così commentò quella sentenza: «Un’esecuzione, una condanna ignobile, un momento di trionfo del neofascismo etico di sinistra». Su Carnevale non basterebbe un libro. È il maggior esperto di diritto, di codici, di camere di consiglio e di corporativismo giudiziario che possiate incontrare.
Conserva memoria da far invidia a un diciottenne. Ha i modi del cavaliere di due secoli addietro. Salì tutti i gradini della carriera di magistrato. Nonostante avessero costruito, solo per lui, gradini alti due metri. Ragiona sempre. Motiva sempre. E ancora non molla.
A Roma è cominciato il dibattimento su Mafia capitale: le lascio la parola.
«Il processo è appena cominciato, potrebbero venir fuori cose che al momento non sappiamo».
Ne sono uscite abbastanza per istruirlo e portarlo a giudizio.
Questo sì, e per quello che si sa finora, rimanere sbalorditi allora è il minimo. Sbalorditi perché?
«Sentir parlare di mafia qui, dà l’impressione di un azzardo avventuroso».
Non portava la coppola Massimo Carminati, detto «il Cecato»: ma uno stinco di santo non pareva...
«Ha ragione: mica è obbligatoria la coppola, per essere mafiosi, però vorrei far riflettere su una questione non di dettaglio. I mafiosi ottengono risultati grazie a un’unica cosa: alla forza intimidatoria della loro organizzazione. Si prendono ciò che vogliono perché chi può dare sa che se non cede può morire. Perché conosce la forza intimidatoria dell’organizzazione. Ed è molto probabile che, contrastandola, muoia».
A Roma pagavano per avere.
«Si è mai sentito di un gruppo mafioso che per ottenere risultati paga? Di una mafia che distribuisce mazzette? Sarebbe un unicum, la prima volta in assoluto».
Dalle carte risulta, per la verità, che il gruppo di Carminati insieme alle mazzette promettesse mazzate.
«Come è buona abitudine per qualsiasi strozzino da quattro soldi. Provi a non restituire i soldi a strozzo. Riceverà promesse di bastonature e magari qualche bastonata vera, o in taluni casi di peggio. Ma c’entra questo con la mafia?».
E cos’è, se no?
«Quella che io ho visto a Roma, finora, si chiama “associazione per delinquere finalizzata alla corruzione”».
L’imputazione, però, è per mafia.
«Solo per alcuni. Evidentemente c’erano altri che delinquevano mafiando, e addirittura mafiando nella Capitale: però non lo sapevano».
Che non li avessero avvisati?
«E che ne so?».
Insomma, mica saranno pazzi alla Procura di Roma. Se quella è l’imputazione contestata, qualche accidente di motivo ci dev’essere.
«Mettiamola così: averla battezzata mafia ha consentito di usare strumenti d’indagine che un’accusa per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione non avrebbe permesso».
Eppure i giornali l’hanno presa per buona. Oserei dire che l’hanno sposata.
«Non mi dica. I giornalisti schierati con la pubblica accusa? Che le fanno da megafono? Sarebbe, nella nostra bella Italia, una novità sconcertante...».
Si sconcerti.
«Mi si insinua un dubbio. Che i giornalisti si schierino con il pm anche quando dispongono di prove abbaglianti del contrario. Che siano dispostissimi a negare l’evidenza. Non si offendano, eh, ma il mio caso per esempio urla questo. E fosse solo il mio!».
Calogero Mannino assolto per non aver commesso il fatto. Dopo una ventina d’anni. E la famosa trattativa Stato-mafia che così se ne va a rotoli.
«Doveva andarci prima».
Perché?
«Senta, vogliamo dirla per bene? La trattativa è stata inventata da Massimo Ciancimino, il quale aveva tutto l’interesse a fare il pentito per conservare l’eredità del padre Vito, che pare fosse cospicua. Ha utilizzato a questo fine il «teorema Falcone», al quale qualche cosiddetto allievo di Falcone stesso ha aggiunto il turbo, secondo cui il pentito ha sempre ragione, anche se i riscontri alle sue affermazioni non si trovano. E i magistrati di Palermohannosposatole fanfaluche del ragazzo perché avevano interesse a colpire qualcuno e a sventolare, per convinzione ideologica o brama di carriera, l’immagine dello Stato marcio sempre e comunque. Poi la solita stampa ha pompato il tutto e ha portato a casa la solita figuraccia senza pagare pegno. Punto e stop».
La fa semplice.
«È l’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia che l’ha fatta semplice. Non è un genio, Ingroia, ma nemmeno del tutto fesso. E a lei pare che uno abbandoni il processo della sua vita un momento prima che vada in aula? Non scherziamo, su: sapeva che sarebbe stato un flop e l’ha lasciato al “compariello”».
Il dottor Nino Di Matteo è un magistrato di valore.
«Qualche dubbio lo coltivo. Intanto è appeso al gancio, come un salame».
Anche il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, è magistrato di valore.
«Lui sì. Magistrato coscienzioso e preparato. Non lo conosco personalmente, ma furono i suoi consigli a evitare a quell’altro genio, Pietro Grasso, una sequela di brutte figure. Nella Palermo di Gian Carlo Caselli, in ragione della sua dirittura, venne messo in un angolo come procuratore presso la pretura. Non riesco a capire perché a Roma stia facendo ciò che fa: è un rompicapo, non me lo spiego».
Troppa sicurezza? Errore? Carriera?
«Lo ignoro, davvero. So soltanto che non mi convince. Ed essendo lui siciliano, e sapendo bene cos’è la mafia, mi convince ancor meno».
Ha promosso lei Silvana Saguto all’esame di magistrato. Com’era?
«Benino allo scritto; male all’orale: arrivò trentacinquesima».
Ora è indagata e trasferita per la cattiva gestione dei patrimoni sequestrati alla mafia.
«Vale per lei ciò che ho detto sulla trattativa Stato-mafia: anche questa storia doveva finire prima».
Che cosa intende?
«Che la dottoressa Saguto facesse quello che faceva, a Palermo si sapeva da anni».
Da anni?
«Esatto».
E perché non è successo nulla?
«La dottoressa evitò l’intervento del Consiglio superiore della magistratura per l’interessamento di un magistrato della sua corrente, allora membro del Csm stesso, in cambio di un favore al figlio».
Parla di Tommaso Virga?
«Appunto, adesso indagato a sua volta. Intanto passavano allegramente gli anni».
E il Csm se la sfanga?
«Il Csm fa il mestiere suo: proteggere gli iscritti alle correnti. Stop».
Non esagera?
«No. Vuole un esempio tra mille? Un magistrato voleva andare in Cassazione. Il consiglio giudiziario aveva dato parere assolutamente negativo. Anzi, il presidente era andato a parlarne col primo presidente della Cassazione: guardi, gli disse, questo sa fare soltanto il galoppino elettorale della sua corrente. Il primo presidente perciò si oppose. Solo che...».
Solo che?
«Dalle correnti dell’autogoverno era stato presentato un «pacchetto» di tre: o tutti o nessuno».
E a quel punto?
«Lo spedirono in Cassazione, alla settima commissione che deve decidere sull’inammissibilità dei ricorsi manifestamente infondati. Solo che, non sapendo quello nemmeno scrivere, gli affiancarono un altro magistrato per scrivergli le sentenze. Eccolo, il Csm».
Il governo Renzi cambierà questo stato di cose.
«No. Né Matteo Renzi né nessun altro».
Perché?
«Hanno tutti paura. Ci vuole poco a gettare fango e ci vogliono tre, quattro, cinque anni per verificare. E la stampa non verifica. Si schiera, appoggia. Intanto tu sei morto. E io ho un solo rimpianto».
Quale?
«Nel 1992 avrei dovuto andare a Milano come procuratore generale. Fossi andato, avrei impedito i metodi alla Antonio Di Pietro. Lo conoscevo bene, gli avevo fatto passare, con qualche sforzo, l’esame da magistrato. Con me a Milano, niente dipietrismo».
Credo che s’illuda, presidente.
«Avrei combattuto, non sarebbe stato così facile».
L’avrebbero crocifissa prima, temo.
«Forse ha ragione, fatto sta che non andai, nonostante il Csm avesse praticamente già deliberato. Avevo tutti i titoli».
Perché non andò?
«Lo dissi a mia moglie. Mi rispose: “A Milano? Manco morta”».