Corriere della Sera, 20 novembre 2015
Che succede a Raqqa sotto le bombe, dove gli uomini del jihad dicono a francesi e russi: «Non ci avete sporcato neanche le scarpe»
«I miliziani impediscono ai civili di lasciare la città. Una mia parente di 27 anni ha un bambino piccolo, le ho parlato ieri, è bloccata nel suo appartamento. Alcuni civili sono rimasti uccisi». Raheb Alwany è una dottoressa di Raqqa scappata mesi fa dalla città siriana. Parla al Corriere da Londra. È alla conferenza «Trust Women» ma non fa che pensare ai suoi familiari intrappolati nella capitale del Califfato. In risposta agli attacchi di Parigi, da giorni la città sull’Eufrate viene bombardata con intensità da francesi e russi.
È difficile sapere con certezza ciò che accade sul terreno. L’unica finestra sono testimonianze come quella di Raheb e gli aggiornamenti degli attivisti di «Raqqa viene uccisa in silenzio», un gruppo ostile sia al Califfato che al regime di Assad e che opera clandestinamente dal 2014. I rischi sono altissimi: lo scorso mese uno dei membri, il ventenne Ibrahim Abdul Qader è stato ucciso al confine turco-siriano dai sicari dell’Isis.
«L’elettricità viene attivata per circa due ore al giorno, ma quando ci sono i bombardamenti viene sospesa del tutto. Il web funziona ma solo negli Internet point», ci scrive Abu Mohammed, un ventisettenne laureato in legge, tra i fondatori del gruppo «Raqqa viene uccisa in silenzio», attraverso la app Viber. Poco dopo la nostra conversazione però i miliziani hanno chiuso anche gli Internet café, per verificare che i computer non siano usati per diffondere messaggi anti Isis.
«Quello che vogliamo sottolineare è che tutti i bombardamenti hanno colpito sedi e posti di blocco Isis e non ci sono state vittime tra la popolazione civile», continua Abu Mohammed (il gruppo ha riconosciuto più tardi solo l’uccisione di sette civili in un raid russo contro installazioni petrolifere). La dottoressa Alwany invece crede che le vittime siano più numerose. «Non puoi colpire l’Isis senza uccidere i civili. I jihadisti sono sparpagliati ovunque. Se c’è un palazzo con quattro appartamenti, due sono occupati da loro».
Il dibattito è aperto anche sui danni inferti dai raid ai jihadisti. «Non ci avete nemmeno sporcato le scarpe», sostiene la propaganda. Pare in effetti che gli obiettivi – tra cui campi di addestramento, uno stadio e un museo usati come prigioni – fossero già stati abbandonati. Secondo l’«Osservatorio siriano dei diritti umani» da domenica sarebbero morti 33 combattenti, per lo più ai checkpoint. Gli uomini dell’Isis sono cauti: girano nei vicoli, evitano di guidare di notte. «In generale – osserva Abu Mohammed – le incursioni aeree della coalizione nell’ultimo anno non hanno avuto grandi effetti, ma hanno procurato tra le file dei jihadisti molta paura. Anche questo è importante».
La paura cresce però anche tra la popolazione. Le voci secondo cui, al passaggio dei jet francesi, le donne – obbligate a portare veli spessi e lunghi – si sarebbero tolte il niqab sui balconi sono esagerate. «Ci sono dei casi di sfida al potere di Daesh – dice Abu Mohammed, usando la sigla araba di Isis – ma sono pochi e non eclatanti». Il divieto di lasciare la città imposto a ottobre, in risposta all’avanzata delle forze curde a nord, è ora applicato con più rigore e fa temere che l’Isis voglia usare i civili come scudi umani. Washington dice di aver evitato spesso di bombardare Raqqa per evitare vittime collaterali; Damasco ha intensificato i raid, colpendo secondo gli attivisti anche delle scuole. Ma l’Isis teme di più l’avanzata di terra: ha imposto la coscrizione obbligatoria dai 14 anni. «La maggior parte della gente odia Daesh – dice Alwany —. Ma c’è chi si è unito a loro perché ha bisogno di soldi». «Non credere che siano pochi i loro seguaci a Raqqa – nota invece Abu Mohammed —. Il consenso è aumentato dopo che le forze curde hanno bruciato le case della gente di etnia araba. Daesh non è fatta solo di miliziani e armi, è un’idea che fa proseliti».