Corriere della Sera, 20 novembre 2015
Nahum Barnea, giornalista israeliano: «Il terrorismo che c’è da noi ha poco a che vedere con quello di Parigi. Quelli del Bataclan erano solo piccoli delinquenti che non sanno niente né di religione né di politica: cercano solo una vita estrema, una qualunque vita estrema»
DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME «Sono appena arrivato da Parigi e da Bruxelles, passando per Roma. Ho viaggiato per un’Europa in grande affanno e appena arrivato qui, ecco altri morti…».
Nahum Barnea è il più famoso giornalista israeliano, il più adatto a fare paragoni tra noi e loro: perse un figlio in un attentato di Hamas, non ha mai perso lucidità nel guardare dentro la notte. «La sfida è molto grande. Dovete affrontare questioni enormi: controllare le frontiere, migliorare la sicurezza interna, rivedere i controlli su migrazioni e minoranze. Una cosa complicata».
Netanyahu paragona il terrore di Parigi e quello in Israele…
«Troppo conveniente dirlo, perché sia anche vero. C’è qualche legame fra situazioni così drammatiche. E io non voglio giustificare chi spara sui civili a Parigi o a Gush Etzion. Ma le radici di quel che vediamo qui affondano nel conflitto israelo-palestinese, non a Saint Denis. Netanyahu non può sottrarsi alla responsabilità di proteggere il popolo e il Paese, esportandola all’estero. Quel che ora affrontiamo in Israele è anche il prodotto d’uno sviluppo politico. Non è solo Isis. L’Isis è uno strato dell’emergenza. Ma solo uno».
A Parigi lei ha respirato una sinistra aria che conosce bene…
«Sedevo con amici e parlavamo di come il terrorismo minacci la gente che vuole avere una vita normale. Noi la chiamiamo sicurezza personale; i francesi, piacere della vita. Ma è la stessa cosa: svegliarsi la mattina e volere una spremuta, andare a scuola, concentrarsi sul lavoro e la sera distrarsi a un caffè. Gli attacchi a Parigi, completamente ciechi di fronte all’identità e alle storie delle vittime, hanno tolto questa quotidianità. In gennaio gli obbiettivi erano “Charlie Hebdo” o un supermarket ebraico: crimini odiosi, ma avevano un significato. Stavolta nessuno può chiamarsi fuori. Chiunque è un target. A Parigi uno viene ucciso indipendentemente da quel che pensa di Hollande o delle bombe su Raqqa. Questa sensazione di paura, gli israeliani la provano da sempre: nessuno è al sicuro. Il terrorismo più efficace è quello cieco che crea terrore cieco. Chi sparava a Parigi se ne fregava della Palestina. E se l’Isis fosse qui, le prime vittime sarebbero i palestinesi».
Però ci sarebbero almeno 200 palestinesi affiliati all’Isis.
«L’Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Puoi anche dire che c’è un legame con la Baader Meinhof o con le Brigate rosse: il terrorismo è terrorismo. Ma non credo ci sia un’attrazione forte. Gli amici d’uno dei terroristi di Parigi mi hanno detto che era solo un piccolo delinquente, viveva spacciando droga e bevendo alcol, altro che buon musulmano. Questi ragazzi non sanno niente di religione, come non sanno niente di Palestina. Vogliono una vita radicale, una qualunque, credere nella distruzione».
Il capo degli 007 tedeschi ha detto che, a combattere il terrorismo, bisogna imparare dagli israeliani. In che cosa?
«Negli aspetti tecnici della guerra globale. Informatori, controllo web, intercettazioni. Noi siamo in una situazione migliore. Un obbiettivo meno centrale, con paure più limitate. Ma il problema ora sono gli accoltellamenti. Non è facile bloccare uno che si sveglia la mattina e decide d’ammazzare».
Netanyahu ha messo fuori legge il Movimento islamico d’Israele: in questa situazione, non era meglio aspettare?
«Questo movimento è davvero pessimo. Ha instillato molto veleno nella società araba, ma anche israeliana. Ha danneggiato la nostra vita pubblica. Ha fatto propaganda estremista che ha creato altri estremismi. Non so se dichiararli illegali sia stata la scelta migliore, perché questo potrebbe dare loro più consensi. Però se mi chiedi: sono pericolosi? Io rispondo: sì. Proprio come quelli che vanno in giro ad accoltellare e a sparare».