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 2015  novembre 20 Venerdì calendario

Due killer in azione a Tel Aviv e in Cisgiordania. Cinque morti. Netanyahu: «È la stessa mano che ha colpito a Parigi e deve suscitare la stessa indignazione»

DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME Il primo è comparso armato più che altro di ferocia, alla periferia sud di Tel Aviv: aveva un coltellaccio e una gran determinazione. E quando una delle sue vittime ferita e zoppicante cercava di scappare, di nascondersi da qualche parte nel Panorama Building, lui l’ha braccata, ha cercato di raggiungerla per finirla, spingendo porte che gli altri cercavano disperatamente d’opporgli.
Il secondo s’è preparato meglio, a un incrocio della Cisgiordania, tuta nera e mitraglietta Uzi, ma dicono i testimoni che solo la sua agitazione gli ha impedito d’ammazzare anche di più. E dopo avere sparato sul pullmino dei turisti ebrei americani che gli passava davanti, è saltato sulla sua macchina ed è scappato nel traffico, andando a sbattere contro altre auto al primo incrocio e facendosi catturare da un automobilista a mani nude.
Due killer, cinque morti. E Benyamin Netanyahu, il premier israeliano, che vede una strategia globale: «Chiunque in questi giorni abbia condannato gli attacchi in Francia – commenta —, deve condannare anche questi attacchi in Israele. È lo stesso terrore. E chiunque lo neghi, è un ipocrita e un cieco».
Che i terroristi si conoscessero, non si sa. Che sapessero tutt’e due il da farsi, è sicuro. Il sangue di Tel Aviv si sparge nella tarda mattinata, in un palazzone d’uffici della periferia sud, dove c’è una piccola sinagoga e un gruppo di religiosi è appena uscito dalla preghiera. Riad Mahmoud Almasalma, 36 anni, un palestinese di Dura con famiglia a Hebron, insospettabile cameriere d’un ristorante dei dintorni, il Bukharan, s’avventa sui primi che gli capitano a tiro di lama: due li uccide, qualcuno lo ferisce. Scatenando un panico tale da far credere, per un po’, che fra i colpiti ci sia anche il figlio del leader dell’opposizione alla Knesset, Herzog: «Grazie a Dio non è vero», deve smentire via Twitter il politico.
Passano sei ore, si va a oltre cento chilometri di distanza, e tocca a un minibus che passa sulla strada 60 di Gush Etzion, in Cisgiordania. Il terrorista con l’Uzi scende dall’auto e sventaglia proiettili a casaccio. Tre morti – un giovane ebreo americano, un israeliano di 50 anni e un palestinese di 40 —, una decina di feriti. La sua breve fuga si ferma quando sbatte e Yuval Lasri, un padre di famiglia che passa di lì, l’atterra e lo disarma.
Lupi solitari o sguinzagliati da qualcuno? «Dobbiamo imparare dagl’israeliani come si fa a bloccare gli attacchi», aveva appena elogiato da Berlino il capo dei servizi segreti tedeschi. «Negli ultimi mesi è stato neutralizzato il 94 per cento degli attentati in Israele», aveva appena tenuto una conferenza stampa a Tel Aviv un alto ufficiale dei servizi israeliani. Il tempo di chiudere i taccuini e la vera arma di questa Intifada dei coltelli, o Terza Intifada o come si vogliano chiamare queste settimane che hanno fatto 18 morti israeliani e 80 palestinesi, l’arma dell’imprevedibilità ha colpito ancora.
A dirla tutta, l’ennesima giornata della rabbia araba faceva prevedere un brutto giovedì: dopo la decisione di Netanyahu di mettere fuorilegge il movimento islamico dello sceicco Raed Sallah, una sigla finanziata da Hamas e Fratellanza egiziana, nei Territori era stato proclamato uno sciopero generale. Ma c’è stato qualcosa, stavolta, che ha spiazzato tutti. Perché il cecchino in nero di Gush Etzion è comparso come una minaccia più seria d’un disperato accoltellatore. E anche l’accoltellatore di Tel Aviv è risultato diverso dal cliché: senza precedenti, con un regolare permesso, era entrato in Israele un mese fa. Aveva dichiarato di voler lavorare: «Invece – ha spiegato, una volta in manette – volevo solo una cosa: ammazzare gli ebrei».