Corriere della Sera, 20 novembre 2015
Gli islamisti hanno già tentato altre volte di ricorrere alle armi chimiche
WASHINGTON Per una volta sono tutti d’accordo. Francesi, russi, americani e iracheni: l’Isis potrebbe usare armi chimiche e sta lavorando senza soste per metterle al punto. Valutazioni espresse da politici che si sono riflesse in quelle dell’intelligence. Gli Usa, insieme agli apparati di Bagdad, hanno individuato un’intensa attività da parte dello Stato Islamico, un programma che non è chiaro quanto sia avanti ma certamente ha attratto risorse.
I jihadisti – secondo informazioni rilanciate in queste ore – hanno reclutato esperti all’estero e ingaggiato un tecnico che ha lavorato nel settore all’epoca di Saddam Hussein. Come altri ex ufficiali oggi al vertice del movimento, ha offerto la sua conoscenza in un campo difficile.
Non è cosa da poco trasformare sostanze tossiche in armi. Ancora più complesso – dicono – poterle usare in una città occidentale. Devi costruirla, trasferirla in sicurezza e poi impiegarla. Ostacoli pratici che tuttavia non hanno scoraggiato i collaboratori del Califfo. Forse si sono ispirati a quanto voleva fare Osama all’epoca dell’Afghanistan quando aveva creato un laboratorio a Darunta affidato all’egiziano Abu Khabab, un Mago Merlino malvagio, che mescolava «ingredienti», provocava esplosioni, gassava cagnolini alla disperata ricerca della grande sorpresa.
Ed è qui il punto. Nei messaggi di propaganda dei vertici islamisti il riferimento a qualcosa di «grande», ad un terremoto che apre la terra sotto i piedi dei crociati, è ricorrente. Il dubbio della sbruffonata esiste. I neri giocano con le paure, fanno comunque danni con i Kalashnikov e le cinture esplosive. L’esperienza e l’11 settembre suggeriscono la regola del «mai dire mai». Anche perché gli esempi non mancano.
Nel lontano 1995 la setta giapponese Aum Shinrikyo ha ucciso dodici persone nel metrò di Tokio dopo aver realizzato cariche al nervino. E l’idea della morte invisibile diffusa da una «nuvola» letale ha fatto strada nella mente dei terroristi. Il conflitto iracheno è diventato palestra e laboratorio. Al Zarkawi non era ancora il nemico numero uno ma già sosteneva che i suoi guerriglieri testassero la ricina nel Caucaso. Poi tra il 2006 e il 2007 i qaedisti in Iraq hanno provato con sistemi rudimentali. Razzi al cloro, kamikaze alla guida di camion con miscele tossiche. Nulla che abbia fatto più vittime di una carica convenzionale, però il segnale di una vocazione.
Lo Stato Islamico, per metà esercito e per l’altra gruppo del terrore, ha ripreso il filo. Il saccheggio di molte caserme del regime siriano forse gli ha permesso di trovare qualche bomba dell’arsenale proibito.
Bagdad ha denunciato all’Onu come nel giugno 2014 il nemico abbia occupato il sito di Muthanna dove erano custoditi 2500 razzi (non più utilizzabili) e agenti chimici.
E poi sono arrivate le conferme, nel corso del 2015, sull’uso di granate da mortaio «particolari» nella regione di Tel Brak (Siria) contro posizioni dei curdi Ypg e dei peshmerga iracheni a Makhmur. Decine gli episodi.
Le analisi hanno svelato che i jihadisti hanno utilizzato prodotti che sono impiegati nell’agricoltura e nel settore civile, come i pesticidi. Gli iracheni sono corsi ai ripari acquistando equipaggiamenti in Russia. Il Cremlino come Washington segue le mosse da vicino. Il premier francese Valls ha esternato le inquietudini all’intera nazione.
Una lunga marcia che nell’analisi dell’antiterrorismo può avere una meta ancora più preoccupante. Con l’iprite o altri veleni nelle mani delle cellule infiltrate nel Vecchio Continente, basta anche solo un test per seminare il panico, è sufficiente un tentativo senza successo per accrescere l’insicurezza. Lo scenario non va escluso, però evitando di fare da megafono ai killer. I cittadini devono essere consapevoli dei rischi, la minaccia va svelata. Anche se credo che i corpi senza vita del Bataclan e quelli tra i tavolini dei ristoranti siano sufficienti a spiegarlo. Purtroppo non bisogna aggiungere altro.