l’Espresso, 19 novembre 2015
In una caserma di Roma c’è un caveau che custodisce tutte le opere d’arte recuperate dai furti
Lui è ormai privo del capo, lei ha la mano sinistra esageratamente allungata, quasi lo scultore si fosse trovato in difficoltà nel momento in cui doveva rendere l’abbandono delle dita addormentate attorno alla ghirlanda di fiori donatale da Dioniso. Eppure, entrambi i marmi, il dio Mitra scolpito mentre affonda il pugnale nel collo di un toro, l’Arianna vinta dal sonno, hanno una storia eccezionale: sono stati intercettati dai carabinieri poco prima di scomparire nel nulla, forse per sempre. Il Mitra era nascosto sotto uno strato di teloni e piante da giardino, nel cassone di un furgone che un anno fa filava da Roma verso Zurigo, pochi mesi dopo essere stato scavato dai tombaroli, capaci di trovarlo là dove gli archeologi non erano mai arrivati. L’Arianna invece era esposta in una galleria d’arte di New York, pronta per essere venduta per 4,5 milioni di dollari, al termine di un esilio durato oltre trent’anni, durante i quali aveva lasciato tracce solo negli archivi dei trafficanti, mai in un catalogo ufficiale. A partire da venerdì 20 novembre verranno mostrati al pubblico nel Palazzo del Quirinale, poi a fine inverno potrebbero tornare finalmente a casa: il primo nell’area archeologica di Tarquinia, la seconda in una delle sedi del Museo Nazionale Romano.
"L’Espresso” ha potuto fotografarli in anteprima in un edificio che, già di per sé, meriterebbe un racconto. Si tratta della Caserma Lamarmora di Trastevere, a Roma, nei locali che un tempo ospitavano il convento annesso alla Chiesa di San Francesco a Ripa Grande. Sulla facciata una lapide ricorda i trecento bersaglieri che partirono da qui nel 1911, «combatterono fortemente e gloriosamente caddero avvolti da orde barbariche» nel villaggio di Sciara Sciat, in Libia. Da qualche anno i bersaglieri hanno lasciato il posto ai Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (Tpc), ed è per questo motivo che, nell’antico chiostro trasformato in cortile, le due sculture attendono l’arrivo degli addetti che le trasporteranno al Quirinale, dove i visitatori potranno ammirarle.
Se per le disavventure di Arianna e del dio Mitra la parola fine è ormai scritta, basta superare la porta blindata che si apre in un buio corridoio lì accanto per entrare in un mondo di mezzo, dove le sentenze non sono ancora tutte definitive: «Noi lo chiamiamo caveau ma, tecnicamente, siamo in quello che si definisce magazzino dei corpi di reato», spiega il colonnello Antonio Coppola, una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata in Sicilia e poi, dal 2013, alla guida del Reparto operativo del Comando Tpc. All’interno, allineati e catalogati sopra un vasto scaffale di metallo, migliaia di tesori perduti dell’arte italiana aspettano la fine delle battaglie giudiziarie che seguono ogni sequestro o ritrovamento. Oppure, per quelli che hanno già superato queste insidie, l’attribuzione ai musei o alle istituzioni che dovranno prendersene cura definitivamente. Su ognuno dei quattro ripiani, ogni scatola rivela una meraviglia.
Si vedono vari crocefissi in legno, statuette di bronzo, busti in marmo, persino un piccolo ma funzionante cannone in bronzo, sottratto a un castello tirolese. I pezzi forti, però, sono il frutto dei rimpatri di numerosi capolavori tornati dagli Stati Uniti durante gli ultimi mesi, organizzati per riportare in Italia beni recuperati con diverse operazioni condotte nel corso degli anni. Ci sono tre affreschi di varie dimensioni – una figura maschile, un medaglione dov’è ritratta la testa di una giovane donna con un amorino sulla spalla, una donna con una stola rossa che tiene nella mano destra una piccola brocca, una “oinochoe” – strappati a picconate nel 1957 in una dimora vicina a Pompei, nel sito di Oplontis, e rinvenuti nell’eredità di un noto industriale americano. Da una cassa di legno imbottito emerge una “kalpis” etrusca, un altro tipo di anfora per l’acqua, datata 510 avanti Cristo e decorata con figure nere di delfini, ispirate al mito di Dioniso. Da trent’anni era l’orgoglio del Toledo Museum of Art, in Ohio, dove l’avevano acquistata fidandosi di documenti contraffatti che ne certificavano l’uscita dall’Italia prima del codice dei beni culturali, arrivato nel 1939. Un espediente, quello delle carte false, utilizzato anche nel caso dell’Arianna dormiente, che i media americani hanno ribattezzato “sleeping beauty”, la bella addormentata, appassionandosi alla sua storia.
DAL TIEPOLO A LELIO ORSI
Le prime tracce della statua, un monumento funebre che raffigura una giovane dal busto nudo, scavata tra Roma e Ostia, sono state trovate nell’archivio sequestrato nel 2002 in Svizzera a un mediatore di nome Gianfranco Becchina. Si tratta di una mole enorme di fotografie, lettere d’incarico a chi trasportava e restaurava le opere, corrispondenza con collezionisti e musei di mezzo mondo, che ha fornito agli investigatori un materiale preziosissimo ancora oggi per dare la caccia ai tesori perduti e documentarne l’effettiva provenienza dall’Italia, quando vengono rintracciati: «Purtroppo, anche dopo anni d’indagini, il numero dei pezzi documentati negli archivi di questo genere è molto superiore a quelli ritrovati», dice il colonnello Coppola. Nell’archivio Becchina, il faldone Arianna era pieno zeppo. Ci sono delle Polaroid che mostrano come i tombaroli, per portare via il sarcofago, l’avessero sezionato in due pezzi, senza nessun rispetto per un’opera dal valore immenso, che l’acconciatura dei capelli permette di collocare nell’età Antonina, tra il 110 e il 120 dopo Cristo: «Vede quei tagli? I restauratori hanno riattaccato i pezzi ma i danni si possono ancora notare facilmente», spiega Coppola.
C’è poi una lettera, datata 5 gennaio 1982, in cui il Getty Museum di Malibu, in California, risponde a Becchina dicendo di non essere interessato all’Arianna: «Dear Gianfranco», scrivono i curatori, rammaricati di doverla respingere in quanto hanno già un sarcofago di quel genere, chiamato klìne dal greco, perché la defunta era ritratta sdraiata sul letto. «There is no available space», è il motivo del rifiuto. Insomma, se a Malibu dicono di no, è perché all’epoca non hanno posto per metterla. Fatto sta che la “bella addormentata” scompare dai radar fino a quando, nel 2013, viene esposta in una galleria d’arte di Park Avenue, che dice di averla in conto vendita per incarico di un cliente anonimo. Scava, scava si arriva al committente, un mercante giapponese che figura in stretti rapporti con Becchina e che aveva già trattato decine di beni provenienti dall’Italia. I documenti per l’ingresso dell’opera negli Stati Uniti sono però contraffatti e l’Ice (Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia federale che vigila sulle dogane, segnala il caso ai carabinieri. «Molto spesso è proprio la collaborazione tra forze di polizia il modo più efficace per recuperare le opere rubate», sostiene il colonnello Coppola, osservando che uno dei punti di forza del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale è «la rete di contatti internazionali sviluppata negli anni, collaborando alle indagini sul campo con investigatori e magistrati». I documenti dell’archivio Becchina, per le autorità italiane e americane, sono la prova del nove: l’Arianna è roba nostra, e in poco tempo ci viene rispedita. Ecco perché i carabinieri, fra le loro attività, effettuano un continuo monitoraggio sui cataloghi delle aste che vengono caricati online. Quando un pezzo ha una corrispondenza con quelli schedati, e succede un centinaio di volte l’anno, scattano gli accertamenti.
Nel caveau, superato lo stanzone delle opere archeologiche, la parte più stupefacente è forse l’enorme archivio che contiene i dipinti. Appare come un parallelepipedo di metallo, che si apre a metà grazie a una grossa manovella. Da entrambe le parti quindici griglie ne fuoriescono scorrendo su binari, mostrando un capolavoro dopo l’altro. Spuntano una “Trinità che appare a papa Clemente” di Giambattista Tiepolo, rubata da un’abitazione privata a Torino nel 1982, ritrovata negli Stati Uniti trent’anni dopo; una natività del Correggio; una cinquecentesca “Leda con cigno” del manierista emiliano Lelio Orsi, che con la sua luce illumina quasi da sola la stanza buia. Era in vendita in una rinomata casa d’aste, sempre a New York, ma non è stata rubata: «Molte opere vengono esportate clandestinamente per aggirare i vincoli che tutelano i beni culturali», spiega Coppola. Facile intuire il motivo: se lo Stato esercita la prelazione per bloccare la vendita all’estero, il prezzo è più basso di quello che si può strappare ai collezionisti internazionali. «Per questo vengono spesso create delle movimentazioni fittizie in vari Paesi stranieri, in modo da costruire una finta vita con una falsa documentazione», continua l’ufficiale.
LE TRACCE DI GAUGUIN A PALAZZO VENEZIA
Non sempre va bene. Generazioni di investigatori si sono battute inutilmente per riavere lo stupendo bronzo rimasto impigliato nelle reti dei pescatori al largo di Numana nel 1961, noto come Atleta di Fano, che il Getty di Malibu – ancora loro – si rifiuta di restituire. Poi ci sono i “most wanted”, le opere più ricercate, con in testa la natività del Caravaggio sottratta in una notte di ottobre del 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo, a Palermo, dov’era appesa da sempre, oppure un sarcofago etrusco degli sposi, che ha due uguali soltanto al Louvre di Parigi e a Villa Giulia, a Roma. Ce n’erano tracce in uno dei soliti archivi tenuti dai trafficanti, qualcuno dubitava della sua esistenza, poi grazie alle confidenze di un tombarolo ne sono stati trovati dei frammenti in una necropoli, rafforzando le speranze di poterci mettere sopra le mani, prima o poi. «Il nostro è un lavoro dove contano tanti fattori: da una parte, sulle opere rubate, è necessario esercitare una pressione continua, dall’altra occorre pazienza, perché un pezzo può essere accantonato per anni, per poi venir movimentato all’improvviso. E quando le acque si agitano, bisogna essere pronti», racconta il colonnello Coppola.
Gli esempi sono numerosissimi. Ha fatto clamore il ritrovamento di un Gauguin da parte di un pensionato di Siracusa, che l’aveva acquistato per poche lire nel 1974 a un’asta di oggetti smarriti sui treni delle Ferrovie dello Stato. Lo ha tenuto in cucina prima a Torino, dove lavorava come operaio alla Fiat, poi nella sua città d’origine, dov’è tornato. E dove un annetto fa ha scoperto che il quadro era, appunto, un Gauguin e che potrebbe valere 35 milioni. Questa la storia nota. Quel che non si sa è che i carabinieri, quando hanno ricevuto la prima segnalazione, sono riusciti ad arrivare a una prima identificazione grazie a un’edizione del 1964 del catalogo ragionato delle opere del pittore, pubblicato da Daniel Wildenstein e custodito alla Biblioteca di Palazzo Venezia. Una scoperta cruciale perché il “Fruits sur une table ou nature morte au petit chien” nelle edizioni più recenti del catalogo era stato cancellato.
Il problema, in Italia, è che molti tesori continuano a sparire senza essere mai nemmeno registrati. Non solo non si sa dove cercarli, non si sa nemmeno che cosa cercare. Primavera 2014, sabato di Pasqua: durante una serie di indagini più ampie tuttora in corso, gli uomini del nucleo operativo hanno sentore di un trasporto di reperti trafugati nella zona di Fiumicino, alle porte di Roma. Piazzano una serie di pattuglie in un’area piuttosto ampia e, alle sei del mattino, vedono muoversi quello che sembra un convoglio: un maxi scooter, un furgone, una Smart. Questa stessa formazione passa in sequenza di fronte a tre punti d’osservazione. Si decide di fermarli. La Smart imbocca contromano la via Portuense e riesce a dileguarsi, così come lo scooter. Il furgone viene bloccato, nel cassone sotto una serie di teloni e di piante si trova il dio Mitra fotografato a pagina 82. Il terriccio fresco indica che è stato scavato da poco. I carabinieri aggiornano di continuo una sorta di mappa del rischio dei furti, dove vengono registrate tutte le segnalazioni di nuove buche e movimenti terra nelle aree archeologiche. Incrociando i dati, arrivano agli scavi di Tarquinia, dove localizzano uno scavo illegale che risale all’anno prima. Ha le dimensioni giuste, partono nuove ricerche. Vengono ritrovati un cane e un frammento di serpente che combaciano con il gruppo scultoreo, così come i resti di un luogo dedicato al culto del dio, detto Mitreo. Si scopre che anche a Tarquinia, così come nella più settentrionale Vulci, nel secondo secolo dopo Cristo resisteva un culto pagano arrivato in Italia per via ellenistica. Il mitreo fu probabilmente distrutto quando, dopo l’editto di Tessalonica del 380 che fece del cristianesimo la religione di Stato, venne sancito il divieto di adorare le statue e di fare sacrifici in loro onore. Di lì un lungo oblio, interrotto quasi per caso un millennio e mezzo più tardi.