l’Espresso, 19 novembre 2015
La passione dei napoletani per i tatuaggi. Una gigantesca opera d’arte collettiva
Gigino ha sessant’anni e una folta barba bianca. Viene dal Bùvero, rione popolare di Napoli, e sul corpo si è fatto tatuare gli stemmi vaticani quando è diventato papa Giovanni Paolo II. Luigi ha viaggiato per mare prima di fare il pizzaiolo e per ogni viaggio ha una Madonna tatuata: la più grande, sulla schiena, è la Madonna dell’Arco, barocca e gigantesca. Maria invece ha 22 anni, confeziona borse in una fabbrica di periferia e il suo primo tatuaggio l’ha fatto con i soldi del primo stipendio.
C’è un universo dietro ogni tattoo fatto a Napoli. E due autori ora lo raccontano insieme. Sono Rocky Casale, americano, giornalista per il “New York Times”, e Giuseppe Di Vaio, fotografo napoletano, classe 1981, esperto di street photography. Da luglio stanno incontrando e fotografando il popolo dei tatuati nella città di Napoli. Dai Quartieri Spagnoli a Posillipo, dal Rione Sanità a Secondigliano e fino a Pozzuoli.
Ogni foto è un ritratto della persona e del luogo in cui vive. Corpi disegnati e scorci di Napoli. Immagini scattate tra i vicoli e le pedamentine storiche, in periferia e sul mare di Posillipo, alla fermata dell’autobus e dentro una stanza. Centinaia di foto, frammenti di membra istoriate sullo sfondo di una Napoli sempre diversa. Una galleria inedita in bianco e nero che vuole diventare un libro e una mostra itinerante. «Finora abbiamo fotografato più di duecento persone, uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale. Abbiamo incontrato padri che hanno il nome del figlio scritto su un braccio, donne che si imprimono poesie, nostalgici innamorati di Maradona, di Sofia Loren e di Totò».
La ricerca di Casale e Di Vaio si chiama “Napoli Ink Project” e documenta il dilagare di un fenomeno che in tutto il Paese ha un giro d’affari di 80 milioni di euro l’anno. Sono quasi sette milioni gli italiani tatuati, il 12,8 per cento della popolazione, secondo una recente indagine dell’Istituto Superiore di Sanità. Le donne preferiscono schiena, piedi e caviglie. Gli uomini ostentano invece torace, braccia, spalle e gambe, ma non disdegnano testa, collo e natiche. Il fenomeno, dice sempre la ricerca, è soprattutto meridionale: solo un tatuato su quattro risiede nel Nord Italia, conferma la ricerca. E Napoli è la capitale italiana dei corpi scritti o dipinti.
Un tempo il tatuaggio era segno di emarginazione e trasgressione, retaggio di una vita dissoluta, codice criminale, linguaggio segreto di marinai, galeotti e prostitute; espressione di una sottocultura. Oggi è tendenza, vezzo, ornamento. Forma di espressione corporea, per i tatuatori che si definiscono artisti, “ink master” per dirla in gergo. Eccesso pacchiano e degenerazione, per i più accaniti detrattori. Sociologi e antropologi però sono tutti d’accordo: il tattoo è un modo per comunicare qualcosa, che sia un’appartenenza o un bisogno interiore; talvolta un modo per esorcizzare paure. “Protesi identitarie”, secondo David Le Breton, antropologo e professore all’Università di Strasburgo che a tatuaggi e piercing ha dedicato il libro “Signes d’identité”, edito da Metailié. Segnare la pelle in maniera indelebile esprimerebbe una volontà di affermare la propria identità, di scrivere il proprio diario personale, dar voce al proprio sentire, talvolta persino con valore terapeutico. Con l’inchiostro che entra nella carne e nel sangue si scrivono sogni erotici e promesse di vendetta, si ricordano date, anniversari, i propri cari estinti; si grida amore e odio, ci si assicura benevolenza e protezione. Il corpo si costituisce come archivio della propria vita. L’epidermide è concepita come pagina bianca su cui scrivere.
Fatte salve le origini e le componenti arcaiche e mistiche dei tatuaggi, prevale oggi il fenomeno di massa e la fascinazione moderna che spinge milioni di persone a non fermarsi a un solo tattoo. Per molti è passione incontenibile che invade e colora l’intero corpo. Ennesima forma di bulimia contemporanea che fa proseliti. Nella sua autobiografia, appena pubblicata per Rizzoli, il rapper campano Clementino dedica un intero capitolo ai suoi tatuaggi. Dodici animali, a cominciare dalla iena, che è il suo nickname perché acronimo di “Io E Nessun Altro”. Ne ha quattro tatuate. E poi, spiega nel libro: «C’è un rinoceronte perché ho la capatosta, un elefante perché mi ricorda il mio viaggio in Birmania, un panda perché il rapper bravo è in via d’estinzione, e quindi mi sono tatuato un panda con le quattro ossa incrociate come fosse la bandiera dei pirati, un leone sulla gamba perché quando faccio i live la gamba è il mio punto di forza, io salto e devo avere la potenza del leone, un cane con sotto la scritta “Gescal” perché venendo dalle case popolari ho imparato a essere un mastino, un pappagallo perché è un animale che rappresenta i colori quindi vivace come me, uno squalo perché sono legato al mare e poi perché a volte nella vita bisogna essere squali. E infine la tigre: perché? Perché mi piaceva. Nella vita non c’è sempre un perché».
Il campionario di immagini e significati all’ombra del Vesuvio è immenso, una sorta di cabala scritta su pelle. Assi di bastone, revolver, tigri, mastini e coltelli rimandano a chiari codici malavitosi. Poi ci sono le icone sacre: rosari, edicole votive, Madonne con bambino o con il cuore trafitto, il Cristo coronato di spine e il Cristo redentore, e ancora santi e protettori: sono atti di devozione e promesse di riscatto, immagini propiziatorie. La scaramanzia a Napoli, si sa, si mescola alla religione, il sacro con il profano. Il memento mori rappresentato dal teschio è iconografia ricorrente, per esorcizzare la paura della morte. Talismani con valenze apotropaiche.
La devozione al Calcio Napoli è un capitolo a sé e si esprime in accorate dichiarazioni di fede scritte sul braccio o sulla coscia con i colori e l’immagine della squadra: “orgoglio partenopeo”, “finché morte non ci separi”, “un’unica città, un’unico colore, un’unica e sola fede” con tanto di apostrofo sbagliato. I bestiari sono un evergreen, tra fantasy e realismo: draghi sputafuoco, serpenti, unicorno e sirene, aquile e squali e più innocui delfini, gabbiani, farfalle e coccinelle. «Gli ideogrammi giapponesi prevalgono sui corpi di Scampia», dicono Casale e Di Vaio, e ogni quartiere ha le sue mode, i suoi linguaggi. Ma è difficile scrivere regole. C’è chi ostenta e chi nasconde: «Abbiamo fotografato tatuaggi enormi e segni minimali nascosti dietro la nuca o tra le falangi di una mano». L’importante, piccolo o grande, è averne almeno uno. Come se in una società liquida, dove si cambiano con estrema facilità gusti, lavoro e partner, si sentisse il bisogno di segnare almeno sulla pelle qualcosa di indelebile.