Panorama, 19 novembre 2015
La sera in cui Ron disse a Dalla che “Caruso” era una canzone orrenda
Quarantacinque anni immerso nella musica, nella bellezza di un’arte che gli ha fatto intrecciare parole e note con alcuni dei più grandi talenti italiani. Hanno interpretato canzoni scritte da lui Lucio Dalla, Gianni Morandi, Fiorella Mannoia, Loredana Bertè e Milva, giusto per citare i più celebri. Quella di Ron, all’anagrafe Rosalino Cellamare, è una storia (raccontata nel libro Chissà se lo sai – Tutta una vita per cercare me edito da Piemme Incontri) che parte da molto lontano, da un esordio al Festival di Sanremo nel lontano 1970.
Aveva solo 16 anni.
«E una mamma che m’aspettava ansiosa a casa. L’immagine che conservo nella memoria è una folla di 300 persone che mi attende al casello autostradale per scortarmi in corteo fino a casa con tanto di striscioni. Quando arrivo, sento la mia canzone che suona. Parenti e amici di famiglia avevano piazzato il giradischi sul terrazzo per far sentire a tutti il 45 giri di Pa’ diglielo a ma’. Una scena meravigliosa che dice molto dell’Italia di quegli anni».
Nella storia del suo sodalizio artistico con Lucio Dalla c’è un ingrediente essenziale: il telefono.
«Certo, ore e ore di conversazioni notturne per scambiarci opinioni sui rispettivi brani. Erano ascolti surreali: Lucio mi faceva sentire le sue idee cantando a squarciagola dopo aver lasciato la cornetta del telefono vicino al pianoforte o alla chitarra. E io facevo altrettanto. Mi mancano molto questi momenti. Erano bellissimi».
Ricorda il momento in cui bocciò Caruso, uno dei brani simbolo della musica italiana nel mondo?
«Gli dissi che mi sembrava una canzone vetusta e che non mi convinceva l’idea che lui la interpretasse con accento napoletano. Lui ricambiò definendo una cagata pazzesca la mia Non abbiam bisogno di parole che invece andò molto bene. Alla fine, direi che siamo pari».
Non tutti sanno che lei fu il music maker del più leggendario tour negli stadi: Banana Republic, nel 1979, con Lucio Dalla e Francesco De Gregori.
«In effetti, gli arrangiamenti delle canzoni di quei concerti erano tutti miei. Avevo un ruolo importante dietro le quinte. Dalla e De Gregori si fidavano molto del mio lavoro. Eppure, quando a metà concerto veniva il mio turno di cantare scoppiava l’inferno: fischi e bottigliette a volontà nonostante a introdurmi sul palco fosse Francesco in persona. Ero diventato un mago nello schivare corpi contundenti mentre cantavo e suonavo la chitarra».
Il suo sogno da bambino era diventare un cantante famoso?
«Asssolutamente sì, mi sdraiavo sul letto e sognavo di diventare come Gianni Morandi. Volevo a tutti i costi la fama, ma poi ho scoperto la bellezza della musica in sé. Non sono mai stato in un conservatorio, non sono un mago dello spartito, ma la musica risiede dentro di me. E non l’ho mai tradita per cercare scorciatoie che portassero al successo. Io mi diverto ancora molto, in questi giorni sto scrivendo le canzoni un nuovo album».
Il suo primo tentativo di incontrare Jackson Browne (l’autore di The road diventata poi Una città per cantare) alla fine degli anni 70 si trasformò in un incubo.
«Un disastro. Mi presentai a casa sua, a Los Angeles, presentato da un giornalista italiano che diceva di conoscerlo bene. Alla porta si presentò un energumeno che mi disse senza girarci intorno: Jackson non vuole ricevere nessuno, men che meno degli italiani. Ci riprovai il giorno dopo: mi liquidò con le stesse identiche parole».
Quando ha capito che cosa era realmente successo?
«Vent’anni dopo quando Browne venne ospite a casa mia: aveva prestato la sua abitazione al giornalista italiano per qualche giorno mentre era in tour. Dopo tre mesi, finito il giro di concerti, tornò a casa e lo ritrovò ancora lì circondato da donne e sconosciuti. Non la prese bene...».