Grazia, 19 novembre 2015
Sul lettino dell’analista con Michele Placido, che racconta tutta la verità sui suoi settant’anni
Michele Placido il male di vivere lo cura così: un ciak dopo l’altro. Attore, regista, produttore, a 69 anni ammette di non essere mai riuscito a fermarsi per fare il punto sulla propria esistenza. Mai avuto la tentazione di sdraiarsi sul lettino dell’analista. Mai stato in terapia, se non per fiction. Dal 23 novembre Placido sarà uno dei protagonisti della seconda stagione di In Treatment (in onda dal lunedì al venerdì su Sky Atlantic), la serie che ha per protagonista Sergio Castellitto nei panni di un analista alle prese con il dolore che ogni giorno abita il suo studio, dentro le storie dei suoi pazienti.
Il personaggio che lei interpreta è un uomo arrivato ai vertici della carriera, che improvvisamente attraversa una profonda crisi professionale. Le è mai accaduto?
«Certo: mi è successo, mi succede, mi succederà. La mia vita è fatta di crisi: le ho superate ogni volta».
Ma senza l’aiuto dell’analista.
«Ho scelto di non sdraiarmi mai sul lettino. Molti miei colleghi sentono il bisogno di una terapia, io preferisco evitarla. Nella presunzione di poterne fare a meno».
Da che cosa le arriva questa certezza?
«Provengo da una famiglia molto cattolica, anche se oggi non posso dirmi credente. In casa mia, la religione era una forma di rassicurazione. La confessione, così simile all’analisi, garantiva il rasserenamento dell’assoluzione. Io non frequento la chiesa, ma ho dentro di me queste certezze. Anche se adesso non chiedo più alla fede di dirmi che davvero esiste un altro mondo. E non chiedo all’analisi di aiutarmi a vivere in questo».
Che cosa la sostiene, allora?
«Noi ci rassicuriamo molto in famiglia (Placido ha cinque figli: Violante, 39 anni, Inigo, 27, Michelangelo, 26, Brenno, 24, Gabriele, 9, ndr). E poi c’è il teatro che, per me, è approfondimento, pensiero, terapia».
Nella serie tv, a un certo punto della terapia, appare sua figlia, interpretata da Alba Rohrwacher, che l’aiuta a ritrovarsi. È successo anche a lei con Violante?
«L’ho detto: la famiglia per me è terapeutica, oltre che complicata. Quasi tutti i weekend li passo insieme ai miei figli: si litiga, si discute, si parla, si macinano problemi, ci si molla, ci si ripiglia. È importante».
È un uomo tradizionalista?
«Sono stato un incendiario, un rivoluzionario. Ho partecipato alle lotte di piazza, ho preso manganellate, ho consumato qualche droga: ho fatto quello che fanno quasi tutti i ragazzi. Adesso ho quasi 70 anni e ho capito che, nonostante tutte le nostre battaglie, il mondo è cambiato pochissimo. E per starci dentro bisogna rafforzarlo. Partendo da quello che abbiamo: la nostra tradizione, la cultura, le cose che ci uniscono, a partire dalla famiglia».
Ha avuto cinque figli da tre donne diverse.
«Ho sbagliato. O forse no. Da 15 anni sto con Federica (Vincenti, 32 anni, attrice, ndr). Lei è la donna giusta: se l’avessi incontrata prima, avrei avuto una sola moglie».
Se l’avesse incontrata prima, Federica sarebbe stata una bambina: avete 37 anni di differenza.
«È colpa mia se il buon Dio ha tardato tanto a farmi questo regalo?»
Mi dica che regalo vorrebbe fare a Federica.
«Io e lei da 15 anni viviamo un amore bellissimo. E insieme facciamo cose, anche professionali, che danno senso alla nostra vita e al nostro rapporto. Produciamo spettacoli, film. Cresciamo insieme nostro figlio Gabriele. Andiamo avanti, dentro una vita piena e nostra. Ma, come lei ha ricordato, abbiamo una notevole differenza di età. Probabilmente verrà il momento in cui io dovrò avere la forza di farmi da parte e lasciare che lei continui la sua vita, anche sentimentalmente. Non voglio e non posso legarla per sempre a un rapporto che magari un giorno, spero lontanissimo, non avrà la stessa intimità e la stessa forza, affettiva e sessuale».
Ci vuole coraggio a lasciare andare chi si ama.
«Credo che sia una forma di amore. La più pura».
Sicuro che ne avrà il coraggio?
«Io non sono credente. Ma amo definirmi un “monicelliano”. Mario (Monicelli, regista, morto suicida nel 2010 a 95 anni, ndr) mi ha insegnato a recitare e poi a vivere: era colto, tollerante, coraggioso. Ha deciso di morire per arrivare da protagonista alla fine dei suoi giorni. Il suo è stato un salto nel vuoto pieno di forza e di vita».
Vuol dire che Monicelli le ha insegnato anche a morire?
«Sì. Anche se non credo che sarei in grado di fare la sua stessa scelta. Molto probabilmente chiederò di arrivare a 150 anni imbottito di farmaci. Ma voglio essere pronto a lasciare andare le persone che amo. Vorrei essere in grado di capire quando è arrivato il momento di cominciare a spogliarsi delle cose della vita, per avvicinarmi a quello che sarà».
Per ora la sua vita è piena di cose, persone, impegni lavorativi. In Treatment in tv, la regia di Tradimenti con Ambra Angiolini a teatro, un ruolo al cinema in Io che amo solo te di Marco Ponti e a Roma sta girando il suo prossimo film, 7 minuti. Non si ferma mai?
«Per me il lavoro è vita. Quando sono a teatro devono mettermi la camicia di forza per portarmi via».
Forse avrebbe bisogno di un buon analista.
«Ce l’ho! È Castellitto».