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 2015  novembre 19 Giovedì calendario

Giampaolo, confessioni di un allenatore stimatissimo dai colleghi e bistrattato dai presidenti

Stimatissimo dai colleghi più illustri, bistrattato dai presidenti meno lungimiranti. Per il tecnico dell’Empoli, Marco Giampaolo, 48 anni, svizzero di nascita ma abruzzese di adozione, il calcio è sempre stato un crocevia di emozioni da addomesticare con la massima cura. Prima da calciatore, poi da allenatore, ha dovuto spesso difendere le proprie idee, fuori e dentro il campo, da chi lo considerava bravo ma non bravissimo, affidabile ma non risolutivo.
A Siena, stagione 2008-2009, il momento più alto della sua carriera: 14° posto finale in Serie A con un carico di complimenti da far invidia ai colleghi più blasonati. Poi, una serie lunghissima di delusioni. E di esoneri. Fino all’estate scorsa, quando l’Empoli, orfano del suo condottiero Maurizio Sarri, decide di strapparlo alla Cremonese in Lega Pro per affidargli la panchina. Sembrava un azzardo, è stata fin qui un’intuizione da premiare a pieni voti. Domenica prossima, la prova del nove, la trasferta nella tana della Fiorentina capolista guidata da Paulo Sousa. Una sfida contro una squadra «di undici registi, ovvero undici giocatori in grado di dare del “tu” al pallone. Spettacolo assicurato», glissa Giampaolo che dopo dodici gare al timone dell’Empoli ha un punto in più rispetto a quello di Sarri, ma lui non si esalta: «Un bilancio parziale, bisogna arrivare alla fine e raggiungere l’obiettivo salvezza solo allora si fanno i conti».
Con la chiamata dell’Empoli e il ritorno in Serie A ha detto «mi è stato tolto l’ergastolo».
«Sì, ma ho anche detto che fino alla fine del campionato mi sarei trovato in libertà condizionata, nell’attesa cioè di vedere cosa sarei riuscito a portare a casa al termine della stagione. Ho sempre pensato che la mia personalissima partita con la Serie A fosse ancora aperta. Sono andato a Cremona con la convinzione di fare un passo indietro per farne due avanti. Il “giudice” Empoli mi ha tirato fuori dei campionati minori, nei quali mi sono anche divertito. È stato probabilmente un azzardo allenare in Lega Pro, non lo nascondo, ma le motivazioni erano fortissime. Era una sfida con me stesso, una sfida che volevo vincere».
Il Milan di Arrigo Sacchi è stata la sua prima grande folgorazione.
«Vero, mi ha conquistato la filosofia che stava dietro al suo modo di intendere il calcio. Ha fatto diventare atleti i calciatori e ha sempre dato precedenza al collettivo rispetto al singolo. Dice ancora oggi che una squadra deve saper giocare insieme, deve ricordare un’orchestra, perché ognuno deve seguire il proprio spartito in un contesto di gruppo. Ha aperto una via nuova, è sta- to un grandissimo rivoluzionario».
Eppure, da bambino lei tifava Inter.
«Tutta colpa di mio padre, che lavorava in Svizzera e quando poteva mi portava con lui a San Siro per vedere le partite della sua Inter. Sarti, Burgnich, Facchetti, Domenghini, Suarez... Quante volte ho sentito parlare di loro a tavola. Ho ritrovato Burgnich a Pescara, lui allenava, io giocavo. Lo ricordo nello spogliatoio, un omone con un’umiltà straordinaria. Era un campione, fuori e dentro il campo».
Ha studiato da vicino il modo di giocare del Barcellona di Pep Guardiola. Anche l’attuale allenatore del Bayern Monaco ha cambiato le logiche del calcio contemporaneo?
«Guardiola ha fatto al Barcellona quello che Sacchi fece ai tempi del grande Milan. Ha fatto suoi gli intendimenti dei tecnici che aveva avuto da calciatore e li ha sintetizzati in un approccio nuovo, unico e originale. Il suo Barcellona era una sinfonia, uno spettacolo. Dietro a quell’approccio, c’era un pensiero, una visione calcistica che Guardiola ha provato a portare anche al Bayern Monaco, ma i risultati sono stati diversi. Perché rispetto alla Spagna, in Germania c’è un’altra cultura del pallone. Cambiano le origini, il vissuto, le aspettative».
Quanto è cambiata la Serie A dopo quattro anni di assenza?
«Così tanti? Avevo perso il conto.... – sorride – Battute a parte, sì, ho trovato una Serie A diversa da quella che conoscevo. Abbiamo perso alcuni campioni che hanno preferito andare a giocare all’estero per ragioni economiche. E se fino all’anno scorso gli esoneri dei tecnici sembravano in continua diminuzione, da questa stagione siamo tornati ai vecchi tempi. I presidenti hanno poca pazienza, vogliono tutto e subito e se non li accontenti ti cacciano...».
Cosa conta di più nel calcio d’oggi?
«I risultati, probabilmente, ma a volte nemmeno quelli. I casi di Sampdoria e Palermo lo dimostrano. Zenga e Iachini avevano raggiunto una posizione di classifica che potrei definire normale. Ma non è stato sufficiente affinché potessero conservare il loro posto. In alcuni casi, più dei risultati, conta l’opinione dei tifosi. Per quanto mi riguarda, sarei felice se il mio lavoro venisse giudicato al di là dei risultati del campo».
È cambiato il suo approccio nei confronti del pallone e di tutto ciò che gli sta intorno?
«Assolutamente, no. Vedo sempre le cose nello stesso modo, perché credo che la coerenza sia un valore da difendere, sempre e comunque. Gli errori che ho commesso nella mia carriera da allenatore vanno tutti in questa direzione: non ho mai permesso a nessuno di calpestare il lavoro che stavo facendo, né di mettere in discussione la mia dignità come professionista. Rifarei tutto. Anche se l’ho pagata cara».
«L’orgoglio e la dignità non hanno prezzo», così rispose al presidente del Cagliari, Massimo Cellino che voleva riportarla alla guida della squadra sarda dopo averla esonerata due volte. Lo rifarebbe?
«Lo rifarei mille volte. Fa parte di quelle cose che non riesco a cambiare del mio modo di essere. Ho sempre scelto seguendo le inclinazioni del cuore, badando al mio entusiasmo e alla mia serenità più che al portafogli, e non me ne sono mai pentito».
Nel 2009 era a un passo, forse meno, dal diventare l’allenatore della Juventus. Due anni più tardi, l’ha cercata la Roma, che poco dopo ha però deciso di assumere Luis Enrique. Aveva già allora i numeri per allenare una grande squadra?
«Ho imparato a prendere i fatti della vita con più filosofia. È vero, più di una volta sono arrivato vicinissimo ad allenare una big, ma poi, per ragioni diverse, non ci sono mai riuscito. Oggi non mi illudo più di nulla. Ho imparato a vivere giorno per giorno e le confido che sto meglio. Meno ansie e meno attese, è la ricetta giusta per non perdere il sorriso. Se perdessi soltanto un briciolo del mio entusiasmo, non esiterei un istante a dire basta... Il mio punto di riferimento oggi è papa Francesco, per me il Santo Padre è il numero uno».
Prego?
«Sì, mi piace moltissimo papa Francesco. Perché va incontro alla sensibilità della povera gente e non ha paura di mettere in discussione le scelte dei potenti. Ho grande stima di lui».