il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2015
Quarant’anni fa moriva Francisco Franco
“Españoles… Franco ha muerto”, così, il 20 novembre 1975, l’allora capo del governo annunciava la morte del “Generalissimo”, artefice di un quarantennio della vita spagnola, 36 anni di dittatura successivi alla Guerra Civile, scoppiata con il pronunciamento militare del ‘36 contro la Seconda Repubblica. Alcuni mesi dopo, il re Juan Carlos nominava a capo del governo Adolfo Suárez, “fortuito” protagonista del passaggio dal regime franchista alla democrazia, secondo la definizione che ne dà Javier Cercas in Anatomia di un istante.
Due mesi prima della morte di Francisco Franco, il regime aveva fucilato cinque uomini appartenenti al Frap e all’Eta, dopo un breve processo militare. Verdetti emessi da tribunali franchisti senza alcuna garanzia, dichiarati poi “illegittimi” dalla legge sulla Memoria Storica del 2007 voluta dal governo Zapatero, ma non annullati dal punto di vista giuridico. Come ha denunciato nella commemorazione dei settant’anni dalla fucilazione del presidente della Generalitat catalana Lluís Company. Quarant’anni dopo la morte del dittatore, c’è ancora tanto da fare per superare quel sentimento collettivo che lo storico Paul Preston, ne Il grande manipolatore, definisce come “una combinazione d’ignoranza e indifferenza la determinazione a non tornare a soffrire una dittatura”. Conosciuto come il Pacto del Olvido tra vincitori e vinti, per cui la transizione alla democrazia avvenne nella dimenticanza dei crimini del regime.
Di cui fecero parte la legge sull’amnistia, il perpetuarsi della monarchia imposta da Franco, la Costituzione del ’78, oggi così discussa dalla vicenda catalana. Ci aveva provato il giudice Baltasar Garzón, nel 2008, ad aprire un’indagine sui crimini del franchismo, accusando Franco di crimini contro l’umanità e finendo perciò imputato per un supposto delitto di prevaricazione. D’altronde oggi, con la soppressione da parte del governo del Partito Popolare della legge sulla Giustizia universale, Garzón non potrebbe neppure perseguire Pinochet.
Ma residui del regime franchista si ritrovano anche nell’esistenza della Fundación Francisco Franco grazie all’autorizzazione dello Stato spagnolo; nelle migliaia di fosse ancora non aperte per le quali il governo Rajoy ha tagliato le risorse, nella negazione dell’identità alle molte persone desaparecidos. Quest’anno, però, l’anniversario della morte di Franco non è dominato dai nostalgici fascisti: fioriscono le pubblicazioni e i programmi sull’epoca franchista nelle università, la Generalitat valenciana approva una commissione sulla memoria, Madrid vuole ritirare i nomi franchisti dalle strade e le piazze della città, il Comune di Barcellona appoggia la causa sostenuta dall’associazione AltraItalia contro i bombardamenti sulla città dell’esercito di Mussolini tra il ’37 e il ’39. Mentre l’associazionismo catalano democratico dà appuntamento davanti al carcere Model di Barcellona per celebrare un atto, rivendicando “Giustizia per i Crimini del Franchismo”. Negli anni Sessanta, Pier Paolo Pasolini si aggirava per le vie di Barcellona, in alcuni dei quartieri allora vere e proprie baraccopoli. In contatto con gli esponenti della letteratura catalana e spagnola, parlava della lingua catalana, proibita dal regime, con rispetto e attenzione. Resa libera con la democrazia, la lingua catalana continua però a essere oggetto di reiterati attacchi da parte dei settori più conservatori e del governo spagnolo.