La Stampa, 19 novembre 2015
Saint-Denis, l’esperimento fallito della «banlieue monde»
La dicevano «città gemellata con la Storia», che fosse quella dei re di Francia che qui hanno la loro tomba, o quella del partito comunista che ne aveva fatto la sua città-laboratorio fin dai lontani Anni Venti. O, come hanno cominciato a dire gli urbanisti passato il 2000, la «banlieue monde», luogo di sperimentazione di insiemi sociali, talvolta anche ammirata dalla destra come fu per Chirac, un’utopia realizzata con le abitazioni sociali in pieno centro, a due passi dalla grande cattedrale gotica, dove sbuca il metrò numero 4, la linea viola, che in meno di mezz’ora porta nel cuore della tout-Paris, a Saint-Michel.
Saint-Denis insomma non è un posto qualunque e tutte queste definizioni che ne hanno punteggiato la storia a poche ore dal blitz contro gli amici e i sostegni degli assassini che hanno colpito a morte la notte del 13 novembre, sembrano sconvenienti iperboli. Specie adesso che la prima kamikaze donna nella storia di Francia, proprio qui, si è fatta esplodere. Ma paradossalmente è invece la dimostrazione che da Saint-Denis passa l’aggiornamento, la sincronizzazione con il contemporaneo, tanto più dolorosa quanto più reale.
E allora bisogna fare un passo indietro e tornare alla sera dimenticata del 6 ottobre 2001. Era un sabato. L’aria era tiepida. La Rer B, la stessa linea di metrò di banlieue che porta al Charles-de-Gaulle dopo aver attraversato tutta Parigi, era stranamente semivuota. Ma appena scesi alla stazione La Plaine-Stade de France, eravamo precipitati in un altro mondo: c’era musica, c’erano colori, odori, fumi, l’aria intera vibrava percorsa da percussioni che venivano da lontano. Sul viale dello stadio barbecue con spiedini «halal» aggiungevano sapore all’insieme dei sensi. In quale periferia africana ci trovavamo?
Lo «Stade de France»
Lo stadio, il meraviglioso Stade de France, l’immensa astronave da incontri ravvicinati, diventato tempio del calcio francese, dove appena tre anni prima i «bleus» di Zinedine Zidane avevano conquistato la prima coppa del mondo contro il Brasile, era stracolmo. Ma i colori non erano il bianco-rosso-blu della nazionale francese, bensì il bianco-verde con una macchia rossa della bandiera algerina. Ecco, quella sera si celebravano i – quasi – 40 anni dell’indipendenza dell’Algeria. Una partita di calcio amichevole, uno di quei tentativi – non sempre felici – di surrogare la politica con lo sport. Doveva essere una serata di amicizia e di storica riconciliazione: mai le due nazionali si erano incontrate sul campo di gioco. E c’erano voluti 40 anni perché ciò accadesse. Doveva essere una festa: si è trasformata nel suo rovescio. E nessuno l’aveva previsto.
Tutto era precipitato prima ancora che si cominciasse a giocare, al momento degli inni nazionali. Canti e boati per quello algerino. Ma quando sono partite le prime note della Marsigliese è come se in un momento la storia di Francia si fosse capovolta. Ottantamila fischi hanno coperto la musica della banda della guardia repubblicana mentre sui maxischermi sfilavano impietriti i volti dei giocatori in maglia blu, quasi tutti immigrati. Zidane, Thuram, Desailly... gli eroi di quella nazionale «blanc-black-beur» (di bianchi, neri e arabi) che aveva costruito l’ultima retorica pop mitizzando la vittoria ai mondiali ’98 come la prova di un modello riuscito, quello dell’integrazione alla francese.
Di colpo, in quello stadio, precipitava un’illusione. Il primo ministro socialista Lionel Jospin, pallido come un morto, rimase al suo posto (e per questo venne poi seccamente rimproverato dal presidente Chirac) per non peggiorare le cose. Ma da quel momento tutto è cambiato. La pacifica e festosa invasione di campo che interruppe il match dopo un quarto d’ora di gioco nella ripresa fu l’inevitabile conseguenza dei fischi: i ragazzi di Saint-Denis si erano presi simbolicamente ciò che la Francia aveva loro negato, la magica pelouse dello Stade era una rivincita storica.
Una catena di eventi
Di qui alla rivolta delle banlieues del 2005, alle raffiche di kalashnikov nella redazione di «Charlie Hebdo» di gennaio, alla decimazione dei rappresentanti di una generazione libera nella platea del Bataclan («Bande d’enculés», dicevano alle loro vittime i killer mentre sparavano ridendo), c’è un filo e non si può nasconderlo. Eppure questa città di centomila abitanti che è stata governata da sindaci modello, per ultimo Patrick Braouezec, un’icona della gauche, non è certo un ghetto: i servizi sociali sono un modello. L’attuale sindaco, Didier Paillard, è l’ultimo comunista a capo di una grande città francese ed è stato il solo a organizzare un referendum per dare il voto agli stranieri. Ma evidentemente ci vuol altro. E che la police, sulle tracce dei killer islamisti, sia finita proprio qui incontrando la prima kamikaze donna, non può essere un caso.
Twitter @cesmartinetti