La Stampa, 19 novembre 2015
È vero, noi europei ci sentiamo più coinvolti dagli attentati di Parigi che da quelli in Nigeria o in Tunisia. Perché dovrebbe essere una vergogna?
Vergogna, tremenda vergogna: gli europei si sentono più coinvolti dagli attentati di Parigi che da quelli che esplodono ogni giorno in altre aree del pianeta. Delle trentaduemila vite mietute l’anno scorso dalla falce terrorista, solo alcune centinaia erano occidentali. Il 2,6% del totale. Eppure è intorno a quello striminzito 2,6 che noi piangiamo le nostre lacrime migliori e organizziamo dibattiti e rappresaglie, razzisti disumani che non siamo altro.
Ai flagellanti che sono già all’opera per titillare una specialità della casa – il senso di colpa – vorrei garbatamente esprimere il mio dissenso. Non è il razzismo a guidare i nostri impulsi emotivi, ma un umanissimo criterio di prossimità. Ti preoccupi di più se va a pezzi l’appartamento del tuo vicino che se crolla un grattacielo su Marte. Le stragi immonde di Boko Haram in Nigeria ci sconvolgono, ma non ci coinvolgono. Gli attentati di Tunisi, in cui pure morirono quattro italiani, e quelli di Sharm el-Sheikh, villaggio vacanze europeo sul Mar Rosso, li abbiamo incassati con un certo autocontrollo. Al di là della naturale commozione per le vittime, il segnale che trasmettevano al nostro cervello era: non puoi più muoverti di casa. Ce ne siamo fatti una ragione. Ma gli eccidi di Parigi diffondono un messaggio molto più stringente: rischi la pelle persino se resti a casa tua. Dove per «casa» si intende non solo il luogo in cui abiti, ma la comunità che condivide le tue abitudini e i tuoi codici. L’Occidente, insomma. Sarà anche una debolezza, ma è davvero una vergogna o un delitto riconoscerla?