Il Messaggero, 19 novembre 2015
Ian Fleming, che ha scritto i libri su James Bond solo per soldi
«Cosa voglio fare al termine della guerra? Semplice: scrivere il migliore romanzo di spionaggio di tutti tempi». Così Ian Fleming confessava all’amico Robert Harling in una lettera che apre The Man With the Golden Typewriter (Bloomsbury, 400 pagine, 25 sterline), raccolta dell’epistolario dedicato al personaggio di 007 appena apparsa a Londra. Il progetto viene attuato solo alcuni anni dopo. All’inizio del febbraio 1952, durante uno scalo a New York sulla via della Giamaica, dove possiede una casa, entra in una cartoleria e acquista alcune risme della miglior carta disponibile. Poi in pochi mesi termina la stesura di Casino Royale, che uscirà per Cape nella primavera 1953 ottenendo subito un enorme successo.
Il narratore, comunque, non apprezza il personaggio e neppure la sua opera visto che a un editor della Cape afferma: «Il dialogo e molte figure, compresa quella del protagonista, sono di una banalità sconcertante e il testo è impregnato di un qualcosa che definirei volgarità. Ci sono due o tre scene d’azione passabili, ma finiscono poi per andare sprecate e inoltre l’elemento della suspense risulta assente». Lo credeva davvero? Difficile pensarlo visto che in seguito dedicò gran parte della vita a proporre nuove avventure di Bond.
Il giudizio, piuttosto, sembra derivare dal suo carattere snob, tipico di un membro dell’alta società inglese. Fleming era nipote di un milionario fondatore di una banca, figlio di un deputato conservatore, allievo della scuola privata di Eton e poi dirigente di buon livello dei servizi della Marina durante la battaglia contro i tedeschi. Sotto questo profilo l’agente con licenza di uccidere appare una controfigura del narratore, almeno per quanto riguarda l’appartenenza di classe. Possiede lo stile del gentleman che apprezza le Bentley, si fa confezionare le sigarette a Grosvenor Street, adora il gioco d’azzardo, il rischio, la sfida. Sempre affrontandoli con autocontrollo e sangue freddo. L’epistolario dimostra che in materia di affari Fleming sapeva come ricavare il massimo dalla sua creatura. Lo testimonia una lettera di ben quattro pagine inviata all’editore Cape piena di obiezioni sulla proposta di contratto ricevuta in cui, tra l’altro, chiede un considerevole aumento delle percentuali sulla base delle vendite. Al termine di una snervante trattativa Cape cede e lo scrittore commenta: «Deve aver capito che intendo spremere da questi libri ogni maledetto centesimo che mi possono dare».
NOTORIETÀ
La notorietà raggiunta gli permette di entrare in contatto con narratori celebri (Chandler, Somerset Maugham) e con Noël Coward che, come lui, passa molto tempo in Giamaica e in un biglietto gli confida: «Sono innamorato di Bond, mi gusto ogni sua mirabolante impresa con una voluttà mai provata in precedenza».
I critici sono unanimi nel ritenere che la serie di 007 riassuma in maniera assai efficace il clima del periodo della guerra fredda, congeniale brodo di coltura per il romanzo di spionaggio e per un personaggio che si batte contro gli avversari venuti dall’Est «con una larghezza di mezzi straordinaria per un’Inghilterra che anche nelle occasioni internazionali fa solo figure da pezze al didietro», secondo un caustico Alberto Arbasino che applica alla serie di 007 la stessa definizione adottata dal poeta Ezra Pound per i Tropici di Henry Miller: libri impubblicabili e tuttavia leggibili. Dal canto suo Umberto Eco ha sostenuto che «il cardine della narrativa di Fleming è costituito dal trucco della ridondanza. Fingendo di scuotere il lettore grazie a situazioni insolite, lo riconferma in una sorta di pigrizia immaginativa, produce evasione».
Dall’epistolario emerge che Fleming all’inizio dei Sessanta aveva un’unica ambizione: che Hitchcock diventasse il regista di uno dei film della serie. Ottenuto un netto rifiuto, provò a tirare i remi in barca. Non sopportava più l’agente segreto al quale aveva dedicato oltre dieci romanzi e lo affermava esplicitamente: «Lo odio, spero di poterlo far sparire dalla faccia della terra», afferma in una lettera. L’editore, forte del contratto, lo costrinse a cambiare idea e così fece in tempo nel 1964 a correggere le bozze di L’uomo dalla pistola d’oro prima di morire per infarto. Bond, naturalmente, gli sopravvisse e ancora oggi i sequel delle sue avventure conquistano i lettori, nonostante l’agguerrita concorrenza di personaggi per uno stile assai diverso da quello inventato dal narratore britannico oltre sessant’anni fa.