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 2015  novembre 19 Giovedì calendario

Con l’emergenza terrorismo il patto di stabilità europeo va buttato nel secchio?

L’attacco a Parigi ha spalancato in pochi giorni un capitolo nuovo nelle falle del patto di stabilità e crescita, che dovrebbe sovrintendere ai princìpi comuni dei conti pubblici dei diversi Paesi europei.
La Francia ha annunciato per bocca del presidente Hollande che le spese aggiuntive per sicurezza e difesa nella lotta al terrorismo sono da considerare estranee al patto. E nel giro di poche ore si sono detti d’accordo prima il commissario agli Affari economici Moscovici, e poi ieri il presidente stesso della Commissione, Juncker. Che diavolo di patto di stabilità sarebbe, se non fosse anche un patto di sicurezza? Il premier Renzi ha subito confermato che quel che varrà per la Francia vale anche per l’Italia.
Molto bene, si potrebbe dire. In realtà, fino a un certo punto. Distinguiamo tre piani. Il primo è la conferma che le regole di disciplina delle finanze pubbliche europee fanno ormai acqua da tutte le parti. Il secondo riguarda le spese di sicurezza e difesa dell’Italia, rispetto agli altri paesi europei. Il terzo è il punto più importante: perché bisogna davvero dedicare alla sicurezza non solo più risorse, ma soprattutto un criterio diverso da quello sin qui seguito.
Già si era capito di fronte all’inesistenza di margini di flessibilità del fiscal compact rispetto alle spese pubbliche addizionali necessarie per affrontare l’esplosione del fenomeno dei profughi, che le regole europee non tengono sufficientemente conto di imprevedibili ma gigantesche circostanze straordinarie che possono abbattersi sui paesi membri. Se si aggiunge che i metodi per calcolare gli effetti del ciclo restano ancora tecnicamente aperti a letture diverse – per il governo italiano nel 2016 l’Italia rispetta la regole del rientro del debito, per Bruxelles con la pagella emessa l’altro ieri non avverrà che nel 2017 o 2018 – si comprende che in realtà il fiscal compact tanto temuto è diventata di fatto una coperta tirata da troppe parti. In ogni caso, il visto di piena conformità concesso da Bruxelles al budget della Francia, che nel 2016 terrorismo a parte prevede comunque di restare a un deficit pubblico del 3,3-3,4% del Pil, rende chiaro che le obiezioni all’Italia lasceranno il tempo che trovano, visto che nel nostro caso il deficit programmato è nell’ordine dell’1% di Pil inferiore. Bene dunque decidere ora che restano fuori dai tetti di deficit le spese per sicurezza (e difesa, ma su questo l’equivoco è ancora aperto: la Francia pensa di sì, Bruxelles sembra riferirsi solo alla sicurezza interna). Ma in realtà, è sempre più evidente che al patto di stabilità serve una riscrittura generale.
Se poi esaminiamo le spese di sicurezza dell’Italia in termini comparati, notiamo due evidenti contraddizioni. La prima è che per le forze di polizia spendiamo in realtà non poco, anzi più della media europea. Eurostat certifica che a fronte di una media dell’euroarea dell’1,7% di Pil di spesa in sicurezza e ordine pubblico, l’Italia spende il 2%: rispetto all’1,6% di Germania e Francia. Se pensiamo ai bilanci delle sole forze dell’ordine, l’Italia spende l’1,2% del Pil rispetto allo 0,9% della Francia e allo 0,7% della Germania. Spendiamo di più, ma spendiamo peggio: ed è il solito pluridecennale problema dei troppi diversi corpi di sicurezza italiani, carabinieri, polizia, guardia di finanza, forestali, e via proseguendo.
Ci hanno sbattuto la testa inutilmente tutti i commissari alla spending review susseguititi negli anni, ma la politica non riesce a compiere scelte energiche. Troppe incrostazioni storiche, competenze sovrapposte, rivalità nel procurement dei mezzi, e contrapposte tutele politiche a tutela dei diversi e troppi corpi dello Stato. Seconda contraddizione: nella difesa spendiamo meno. Siamo allineati alla media dell’eurozona pari all’1,2% del Pil, ma Francia e Spagna stanno all’1,8% e il Regno Unito al 2,3%. Ma anche qui spendiamo peggio. Se ci fermiamo alla sola funzione difesa ristretta – depurata dei costi dei carabinieri e di ciò che sta a carico del bilancio del ministero ma non costituisce appunto la funzione difesa vera e propria – si scende allo 0,8% del PIL. I tagli di spesa alle forze armate sono stati di quasi il 10% in termini reali in 10 anni.
I costi per l’acquisizione di nuovi velivoli e piattaforme navali sono a carico ormai quasi sempre del Mise ma, malgrado i pesanti impegni di questi anni su teatri operativi del massimo impegno e rischio come Iraq e Afghanistan, i fondi di esercizio sono stati dimezzati. Ce la possiamo sognare, l’operatività dei francesi e dei britannici. E del resto alla politica italiana è sempre andato bene così: pronta a gonfiarsi il petto logorando uomini e mezzi in missioni “di pace” che in realtà lo erano a parole, ma usando la difesa come bancomat per smentire ogni volontà interventista.
E veniamo al terzo punto, quello oggi più decisivo contro il terrorismo jihadista: l’intelligence. Com’è ovvio sono riservate le spese di Aisi e Aise, le due costole esterna e interna dei servizi italiani. La stima è intorno agli 8-900 milioni di euro. Per avere un’idea degli ordini di grandezza, l’altro ieri il cancelliere dello scacchiere britannico Osborne ha annunciato un aumento della dotazione annuale di MI5 e MI6 pari a 1,9 miliardi di sterline con 1900 nuovi addetti, mentre per la sicurezza tecnologica affidata al Gchq, l’equivalente della Nsa americana che dai satelliti ai computer sorveglia le comunicazioni mondiali, il Regno Unito spende circa 4 miliardi di sterline. Siamo dei nani, nella comunità delle grandi reti di intelligence mondiale. E paghiamo quattro soldi chi, nel campo della cyber-security, nel mondo privato ha invece retribuzioni stellari.
In questi giorni il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti ha posto il tema della necessità di rinunciare anche a dei diritti sin qui tutelati, dalla privacy alla piena libertà di spostamento, in nome della tutela della vita e della sicurezza. Per chi come noi è liberale, va detto no al Grande Fratello del controllo remoto esteso a tutti, senza filtri giurisdizionali. Ma a maggior ragione se vogliamo difendere le nostre libertà dobbiamo spendere di più e meglio: in tecnologie e uomini, hardware e software, per filtrare e analizzare e concentrare le informazioni laddove servono. Ora che le maglie del patto di stabilità europea si sono allentate, è innanzitutto questo il settore che il governo deve potenziare.