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 2015  novembre 19 Giovedì calendario

Cosa resta del fascismo oggi

Si può pensare alla storia, ha scritto Regis Debray, come una specie di condominio per cui l’ultimo pianerottolo non assomiglia a quello sottostante, ma a quello due piani sotto. Così, per meglio comprendere il potere e i potenti di questi ultimi anni – uomini forti e soli al comando – sembra inutile soffermarsi sui pallidi, esili, sottili e prudenti capi dc della Prima Repubblica, ma tocca riandare diretti e senza indugi al fascismo.
È quanto ha fatto Tommaso Cerno in questo A noi!, impresso su una copertina d’iper grafica pop littoria, sottititolo: Cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi (Rizzoli). E per quanto sia evidente che di quel ventennio ci restano diverse cose, la novità è che forse solo un giornalista, scrittore e conduttore televisivo quarantenne – giusto l’età del premier – poteva trarre vantaggio dal tempo lungo per «riscoprire» con occhi distaccati la figura di Mussolini: «Come un biologo al microscopio».
Perciò soffermandosi, più che sui disastrosi eventi, sui simboli, i miti, i rituali, le coreografie, gli stereotipi e i linguaggi che spesso a suon di metafora quell’esecrato regime ha silenziosamente, forse inconsapevolmente, comunque inesorabilmente trasmesso alla politica e in special modo ai leader della Seconda Repubblica: dal Cinghialone con gli stivali al Cavaliere con il Sole in tasca fino al Rottamatore futurista; senza tralasciare, nell’incalzante disamina, il razzismo e la volgarità del Senatùr o gli insulti del Buffone a cinquestelle, ritenuto alfiere di una sorta di «sansepolcrismo post-moderno».
Nel frattempo, osserva Cerno, il celebre balcone di Piazza Venezia è chiuso con un lucchetto. Ma oggi non c’è chiavistello, tanto meno copyright, che possano bloccare l’eredità del duce quanto a dispositivi di comando, spasmo di comunicazione (iconografia, musica), centralità del corpo, ricadute carismatiche, culto della personalità e indeterminatezza tra ciò che è del capo e ciò che è di tutti.
Non è questione di revisionismo. Tanto meno si tratta di scandalo o iconoclastia a buon mercato. Sia pure talvolta un po’ forzato per la foga dell’autore a tutto comprendere nel meccanismo analogico-comparativo, appare chiaro che antifascista fu l’Italia solo dal 1946 fin verso la metà degli anni 80. Poi basta, e su quella stagione si chiude una parentesi.
Forse c’entrano le morti di Moro e di Berlinguer, entrambe all’altezza del dramma geopolitico della guerra fredda. Forse in questo ignaro mussolinismo ha un peso il carattere nazionale con le sue ineffabili regolarità: a partire dalla figura della mamma (Rosa, per inciso, si chiamavano le mamme di Mussolini e di Berlusconi, oltre a quella di Andreotti) per finire con la vocazione al trasformismo e/o all’intrigo di palazzo e al tradimento. E certo gli esempi non mancano.
Del resto con la personalizzazione verticale della leadership e il revival del decisionismo ecco che la democrazia, almeno come la si intendeva nella Costituzione, tende a farsi optional, seconda scelta, o finzione. Consumata nella vergogna la «Repubblica dei partiti», il potere torna quello di prima e riemerge l’eterno fascismo all’italiana, l’inconfessabile continuità di cui hanno scritto Pier Paolo Pasolini e Giorgio Bocca. Un’attitudine mentale, uno stato latente dell’animo che si riconosce e si misura più nell’opportunismo o nell’obbedienza dei governati che non nelle tecniche di chi, ieri da un balcone con la faccia cattiva e la voce grossa, oggi con le chiacchiere e le smancerie in tv o sui social, si ostina spesso invano a governarli.
In realtà, come ha scritto Bernardo Valli, «la storia, più che ripetersi, ti insegue nella memoria quando gli avvenimenti che la ritmano hanno qualche somiglianza con quelli di un tempo tragico e remoto, rimasto inchiodato nei ricordi. Basta allungare la mano per rianimare fatti di 70-80 anni fa». Sennonché la replica di questo fascismo domestico va in scena secondo modelli sempre più degradati. Come se la storia si riducesse a operetta, eterna commedia,grottesco cinepanettone, farsa terribilmente oscena: ma troppo lontana nei suoi esiti dalla tragedia fascista.
Così fra le ricostruzioni
hard- boiled di Benito, Claretta e donna Rachele che si prendono a spintoni e a sberle a Salò e il racconto di Veronica o delle «cene eleganti» del berlusconismo terminale il congegno forse si riscalda; così come fra lo scempio di Piazzale Loreto e i servizi sociali di Cesano Boscone si frappone un’aggrovigliata disparità di destini che rende insieme più leggero e pesante ogni paragone.
Ma la grande lezione, la migliore scoperta è che l’uomo forte è in realtà assai debole. O almeno: gli stanno addosso la vita privata, la famiglia, le amanti, le brutte figure, i dossier, la malattia, la sua stessa non infrequente follia. E non si capisce mai se tutto questo sia un bene o un male; se per caso il saluto stentoreo che dà titolo al libro di Tommaso Cerno, A noi!, non si possa dirottare in un più consolante congedo: «a loro!», poveri diavoli del potere, sempre diversi e uguali nel comune destino che li aspetta al varco.