la Repubblica, 19 novembre 2015
La paura dei tedeschi. «Ora siamo noi l’obiettivo?»
Cinque giorni, cinque notti, ed è cambiato tutto. Erano e sono grandi atleti, i migliori del mondo nel loro mestiere, ma adesso più che altro si tratta di uomini e ragazzi impauriti, il panico gli attorciglia lo stomaco.
Erano, e sono, Die Mannschaft, la squadra campione del mondo di calcio, vanto della Germania, emblema del multiculturalismo nazionale: convivono e stravincono insieme, da anni, giocatori di origine turca, algerina, marocchina, polacca, ghanese, eppure fieramente tedeschi. Ecco, forse è proprio lì il problema, si pensa in queste ore. Forse la nazionale di calcio, col suo carico simbolico, è un obiettivo dei terroristi che il multiculturalismo lo combattono. Da qui il panico che attraversa la squadra migliore del mondo dopo cinque giorni nel terrore, fino all’annullamento dell’amichevole contro l’Olanda, martedì ad Hannover. Un evento che ha fatto dire a Reinhard Rauball, presidente pro tempore della federcalcio tedesca: «La cancellazione della partita è stata una decisione giusta, ma che cambia il calcio nel nostro Paese». I giocatori, per quanto li riguarda, sono già cambiati.
Hanno paura e basta, nonostante lo psicologo della nazionale, Hans Dieter Hermann, sostenga che sono tutti «preoccupati, ma non paralizzati». In realtà alcuni neppure vorrebbero giocare la 13esima giornata di Bundesliga, che parte domani con Amburgo- Borussia Dortmund e il cui svolgimento per ora è confermato.
La nazionale convive con armi e militari in tenuta di guerra fin da mezzogiorno di venerdì scorso, quando l’incubo inizia. Sono nella palestra dell’hotel Molitor a Parigi, quando vedono arrivare poliziotti e cani anti-esplosivo: c’è un allarme bomba, tutti evacuati, poi rientrano in albergo. A sera vanno allo stadio di Saint Denis per giocare contro la Francia. Durante il primo tempo ecco il rumore delle bombe, che in campo si avverte nitido: è l’inizio dell’attacco terroristico a Parigi. Il ct Joachim Löw viene avvertito di quello che sta accadendo ma nel discorso alla squadra, durante l’intervallo, non dice nulla, perché si è deciso che la partita deve continuare. Ma qualche giocatore sbircia il telefonino e trova messaggi terrorizzati di familiari e amici: a quel punto la Mannschaft sa, ma va in campo per il secondo tempo. A partita finita, rimangono tutti negli spogliatoi. Attraversare Parigi sarebbe troppo pericoloso per un probabile obiettivo sensibile, così si predispongono alla notte nel ventre dello stadio, come capita, 60 persone in 70 metri quadrati. Vengono portati materassi per dormire, nessuno ci riesce. Sul telefono del team manager Oliver Bierhoff, all’1.30, arriva la chiamata di Angela Merkel: «Lì siete al sicuro. La Germania è con voi».
Lasciano Saint Denis solo all’alba, raggiungono l’aeroporto in furgoni anonimi. Atterrano a Francoforte, vengono lasciati liberi per un giorno e mezzo, si rilassano in famiglia. Domenica c’è allenamento, blindato: poliziotti ovunque, e lunedì lo stesso. Il panico attanaglia tutti. Molti di loro, da Neuer a Thomas Muller, premono per non giocare l’amichevole contro l’Olanda. Il centrocampista Ilkay Gundogan quasi implora: «Siamo atleti ma non macchine, siamo fatti di carne e sangue anche noi». Ma bisogna giocare «per dare un segnale», insomma li costringono. Tanto ad Hannover non arriveranno mai. Quando sono a 5 chilometri dallo stadio, arriva la telefonata: «C’è una minaccia terroristica, non si gioca». Il bus torna indietro, porta la nazionale in un «luogo sicuro» e sconosciuto. Stanno lì due ore, poi tornano in hotel, ma ai giocatori viene chiesto di spegnere i telefoni fino a ieri mattina.
In quel momento la sensazione di essere un obiettivo terroristico diviene certezza. Nulla sarà più come prima. I campioni del mondo, ora, hanno solo paura e vorrebbero scappare lontano.
(ha collaborato Matteo Pinci)