la Repubblica, 19 novembre 2015
Storia di Hasna, la prima kamikaze a farsi esplodere in Europa
È francese, 26 anni. Si chiamava Hasna Aitboulahcen e faceva l’imprenditrice. È la prima jihadista di Daesh che si fa esplodere nell’Europa trascinata in guerra. Lo ha fatto alle 6,30 di un mercoledì che si annunciava finalmente caldo e soleggiato. Dentro una stanza spoglia, sudicia, senza neanche una sedia per riposare e un materasso su cui dormire. Un buco infame. Uno “
squat”, le case occupate negli stabili abbandonati. Chi ha chiesto ospitalità aveva bisogno solo di “acqua e di pregare”. Richieste tipiche di chi si prepara a farsi esplodere.
La tana è al terzo piano di un vecchia costruzione, i muri bianchi, il tetto spiovente in tegola. Cuore di Saint Denis, periferia popolosa, povera e multirazziale nell’estremo nord di Parigi.
È stato grazie a questa “shahida”, martire al femminile, nata a Clichy la Garenne, al confine con il 17 arrondissement, se la polizia antiterrorismo francese è riuscita a individuare l’ultimo covo del quarto commando da una settimana in azione tra Parigi e Bruxelles. Il suo cellulare è stato intercettato per giorni. Parlava con il Belgio, la Germania, la Grecia e la Siria. Era l’elemento di raccordo. Tra i fuggiaschi della strage di venerdì 13, la centrale di Raqqa e Salah Abdeslam, la mente dell’ultima offensiva del Califfato in Europa. Cugina da parte materna di Abdelhamid Abaaoud, era in grado di portare gli investigatori sulle tracce del vero regista dei tre commando che hanno seminato morte e panico a Parigi. Forse nella stessa casa dove una fonte attendibile diceva fosse nascosto. I 115 agenti dei corpi speciali della
Diréction de la sécurité interieure (Dgsi) non lo hanno trovato. Hanno trovato lei.
Decisa, subdola, scaltra. Dopo l’assalto frenato da una porta blindata che non voleva cedere, nel buio della notte illuminata solo dai laser rossi dei fucili d’assalto e dai lampi azzurri dei rivelatori di calore, questa giovane jihadista ha indossato la cintura esplosiva e ha iniziato a urlare. «Chiedeva aiuto», racconta una testimone che abita nello stesso palazzo. «La lunga e violentissima sparatoria era cessata da almeno un’ora. C’era un silenzio cupo, profondo. Si sentiva solo la sua voce che gridava: aiutatemi! La polizia era piazzata sulla palazzina di fronte. All’altezza dello stesso piano e sui tetti. Le hanno risposto di farsi vedere, di aprire gli scuri delle finestre, di tenere le braccia alzate e le mani bene in alto. Lei, eseguiva, senza mai mostrare il suo viso. Tirava fuori le mani e le ritraeva. Due, tre volte. Poi, c’è stato un boato. Tremendo. Una esplosione fortissima. È venuto giù tutto. Il tetto dell’ultimo piano e il pavimento del terzo».
La dinamica non è ancora chiara. Non si sa se la detonazione sia stata provocata da lei; oppure se sia stata uccisa da un colpo di un cecchino e questo le abbia fatto lasciare la presa sulla leva che aziona la bomba.
Hasna non era conosciuta ai servizi antiterrorismo. Una vita normale, ottime scuole con ottimi risultati, sogni, progetti, amori, l’ambizione di emergere sul lavoro. Era la responsabile della Beko construction, società di costruzioni specializzate, creata nel 2011 a Epinay-sur-Seine, nel dipartimento di Seine- Saint-Denis, e dichiarata in liquidazione giudiziaria nel marzo del 2014. Forse una copertura; forse un tentativo di creare qualcosa poi travolto dalla crisi economica.
La rivista Jeune Afrique, la prima che ha rivelato il suo nome, raccoglie i ricordi di chi la frequentava. Solo ora si scopre che era una fervente jihadista. Era ossessionata dall’idea di unirsi a Daesh, di volare in Siria. Disprezzava la Francia: uno Stato “miscredente” che andava combattuto. Ma era disposta, diceva spesso, a fare un attentato se il Califfato “lo ritiene utile”.
Le indagini forniranno dettagli e molti retroscena. Ma il suo presente già la tratteggia a sufficienza. Conferma il cambiamento segnato dal massacro di 129 persone.
Hasna Aitboulahcen è una pioniera in Europa. Ma fa parte delle oltre 220 donne che dal 1985 si sono fatte saltare in aria in mezzo mondo. La prima è una libanese, Sana Khyadali, 16 anni appena. Si lanciò contro un convoglio israeliano, 2 soldati uccisi. Un vero choc per le società chiuse e conservatrici del mondo arabo: il coraggio di questa ragazzina riempì di orgoglio anche i più refrattari.
Le sostiene Tanzim, braccio militare di al Fatah, le difende la Jihad islamica nella Striscia, le sdogana Hamas. È un contagio. Ricordate le “vedove nere” cecene? Poi le irachene, le siriane, le curde. E le nigeriane di Boko Haram. Le donne terroriste ci sono sempre state: contro Rajiv Gandhi, Alessandro II di Russia, Lenin. Ma non massacravano stuoli di innocenti.
Le moderne donne-bomba sono diverse. Sensibili, spietate, feroci militanti. Fino all’estremo. Come Reem al Reyashi, irachena, 22 anni, madre di due bambini di 1 e 4 anni. Nel video registrato prima di farsi esplodere spiega con un dolce sorriso: «Voglio che tutti i pezzetti del mio corpo volino in ogni direzione per uccidere più nemici possibile».