19 novembre 2015
In morte di Lomu
Domenico Calcagno sul Corriere della Sera
Era il 18 giugno 1995, Nuova Zelanda e Inghilterra si affrontavano a Città del Capo in semifinale di Coppa del Mondo. Doveva essere una partita equilibrata, durò poco più di una ventina di minuti alla fine dei quali nulla fu più come prima. Iniziò tutto con un passaggio di 30 metri verso sinistra di Bachop, il numero 9 degli All Blacks. Non un granché. Ma quando Jonah Lomu raccolse quella palla accadde qualcosa di straordinario. Il ragazzo, aveva 20 anni, cominciò a correre, aggirò il velocissimo Underwood, ruppe il placcaggio di Carling, capitano e miglior difensore dei bianchi, calpestò Catt, l’estremo che qualche anno dopo disse: «Almeno, passandomi sopra mi ha reso famoso», e schiacciò in meta. Rupert Murdoch, a Los Angeles davanti alla tv, saltò sulla sedia. «Chi è quello? Deve essere nostro».
Lomu segnò altre tre mete in quel pomeriggio di sole freddo, gli All Blacks vinsero 45-29 e andarono in finale per perdere contro gli Springboks di Nelson Mandela. Murdoch offrì alla federazione neozelandese 600 milioni di dollari per i diritti delle partite di quel numero 11 e il rugby a 15, che stava perdendo i suoi campioni corteggiati a suon di dollari dal rugby a 13, iniziò una nuova vita.
Lomu se ne è andato l’altra notte a Auckland, nella sua casa. Era appena tornato da una breve vacanza a Dubai con la famiglia. Aveva 40 anni, lascia la moglie Nadene Quirk e due figli piccoli. E lascia un vuoto in un mondo che gli deve molto perché senza di lui non sarebbe diventato quello che è. Lomu, alto 196 cm per 120 chili, capace di correre i 100 in meno di 11’’, fu infatti il prototipo di un giocatore non previsto. Grande, forte e veloce. Oggi ce ne sono tanti così, ma lui fu il primo e la sua comparsa sui campi fu uno choc al quale nessuno era preparato. Carling, dopo il massacro del 18 giugno, quando il rugby a 13 e il football americano tentavano di assicurarsi il gigante originario di Tonga, disse: «È un mostro, prima se ne va e meglio è».
Ma Lomu non se ne andò. Rifiutò tutte le proposte, comprese quelle indecenti, per quella maglia nera che indossò 63 volte e con la quale segnò 37 mete senza però riuscire a vincere la Coppa del Mondo. Immenso, inarrestabile per i suoi avversari, ma costretto a combattere con un nemico terribile, una malattia degenerativa dei reni che lo costrinse a interrompere l’attività nel 2004, subire un trapianto, sostituire le cure, la dialisi agli allenamenti. Una malattia che gli ha impedito di fare tutto quello che avrebbe potuto, di sfruttare fino in fondo il suo talento, ma che non gli ha impedito di cambiare il rugby perché nessun altro giocatore è stato famoso, popolare, amato quanto Lomu.
«Un marziano – racconta Stefano Bordon, centro azzurro che lo affrontò nel ‘95 a Bologna —. Riuscii a placcarlo una volta e lo stadio esplose. Nemmeno avessi segnato la meta della vittoria sugli All Blacks».
Massimo Calandri su Repubblica
«Dicono sia già in Paradiso, è arrivato di corsa. Perché nessuno può fermarlo». Delle migliaia di messaggi di cordoglio, questo racconta meglio di tutti Jonah Lomu, il gigante dallo sguardo triste che solo la malattia ha potuto placcare. La leggenda neozelandese del rugby, l’uomo che ha ribaltato le leggi fisiche dello sport, che ne ha riscritto logica e dinamica, il Tyson e il Maradona ovali, aveva 40 anni e un’ultima meta da segnare: «Vorrei vedere i miei bambini diventare maggiorenni». Invece se n’è andato l’altra notte nella sua casa di Auckland, la moglie Nadene gli stringeva la mano, i piccoli Brayley (6) e Dhyreille (5) dormivano innocenti. Il cuore, la cosa più grande in quell’omone di quasi due metri e 118 chili di muscoli, non ha retto. Soffriva da sempre di una rara forma di sindrome nefrosica, gli avevano trapiantato un rene ma lo aveva rigettato. Era un calvario di dialisi e ricoveri, però uno così pensi non si arrenda mai. Stava male già da ragazzo, eppure sparpagliava avversari sul prato che neanche Bud Spencer, e allora? Allora è successo che all’improvviso le proteine sono scese di 25 volte il normale, la luce si è spenta. Ora Jonah è tornato a correre. Nel suo Paradiso ovale, implacabile e implaccabile.
«Chissà cosa avrei potuto combinare nella vita, se fossi stato bene». Nessuno mai, come lui. Il più giovane a esordire con la maglia numero 11 dei mitici All Blacks, a 19 anni. Un’ala anomala per dimensioni e velocità, si metteva l’ovale sotto l’ascella e chi lo teneva più? Nei mondiali sudafricani del 1995 avevano persino messo una taglia: 5.000 dollari a chi fosse riuscito a bloccarlo. In qualsiasi modo, almeno per una volta. Lo fece Joost Van der Westhuizen nella storica finale vinta dagli Springboks ai supplementari davanti a Nelson Mandela, quella celebrata in Invictus. Joost oggi è su di una sedia a rotelle, vittima della Sla, e uno degli ultimi amici che gli è andato a fare visita in estate è stato proprio il gigante gentile. Il ragazzino che in quella World Cup aveva sbalordito con 4 mete segnate in semifinale all’Inghilterra. La prima rimane la copertina di questo sport, un filmato cliccato milioni di volte: Lomu supera Underwood, Carling (che poi ebbe una storia con Lady Diana) e travolge – calpestandolo letteralmente – il povero Catt. Un mostro di velocità e forza fisica, un fenomeno della natura, uno che avrebbe dominato in qualsiasi disciplina: la Nfl offrì un tesoro per convincerlo a passare al football, niente da fare. «Ricordatevi che il rugby è uno sport di squadra: tutti i 14 uomini devono passare la palla a Jonah», era scritto in un profetico fax ricevuto dalla federazione neozelandese prima di quell’incontro. La sera del match non partecipò al terzo tempo: si sentiva stanco, spossato. Andò a letto presto, nemmeno gli riuscì di mangiare il sandwich che gli avevano preparato.
La prima diagnosi della malattia non fu così allarmante. Il ragazzo dallo sguardo triste e il fisico prodigioso partecipò alla sua seconda World Cup, 4 anni dopo. Un’altra pioggia di marcature spettacolari, portandosi sulle spalle come bambini mezza squadra inglese e pure la Francia. Però mancò ancora il titolo, la fortuna non è mai stata dalla sua parte. Tante battaglie in campo con diversi club kiwi -Manuaku, Auckland Blues, Chiefs e Hurricanes - poi quella in ospedale, perché ad un certo punto il corpo non reggeva più. Il trapianto di un rene, donatogli da un amico dj, nel 2004. Siona Tali ‘Jonah’ Lomu, figlio di un pastore metodista tongano, ricominciò dal Galles, una stagione ai Cardiff Blues. Ma non era più l’uragano di un tempo. Una parabola lenta, inesorabile, chiusa nel 2010 giocando a Marsiglia con una squadra di dilettanti. «Vorrei continuare, il rugby è tutta la mia vita. Ma non ce la faccio». L’anno dopo, il rigetto del rene e di nuovo l’incubo dei ricoveri. «Devi sempre cercare di restare positivo, anche se questa malattia ti distrugge un poco alla volta». Jonah non ha mai mollato. «L’alternativa è una sola: stare su col morale. E lottare, sempre. Voglio insegnare ai miei figli che non c’è niente di facile, in questa vita».
L’impegno con l’Unicef e altre charity, le strette di mano agli All Blacks - che a fine ottobre hanno vinto il loro terzo titolo - e a Julian Savea, che sostengono sia il suo erede ma è impossibile. Nei giorni scorsi era a Dubai con la famiglia, una breve vacanza. Su twitter ha postato un messaggio dopo l’attentato di Parigi («Siate forti, viva la Francia») e un’ultima foto, 3 giorni fa: il gioco d’acqua di una fontana. Ieri Richie McCaw, l’altra leggenda ovale neozelandese che ha appena alzato al cielo la World Cup e oggi avrebbe dovuto annunciare il ritiro, lo ha salutato: «Eri un incredibile rugbista e una straordinaria persona. Riposa in pace, amico».
Stefano Semeraro su La Stampa
Lo ha tirato giù il placcaggio che non si aspettava, un avversario che veniva da dentro. Una rara forma di nefrite che lo tormentava dal 1997 e gli aveva spezzato la carriera tre o quattro volte costringendolo a un trapianto di rene. Anni di dialisi, il rischio di finire su una sedia a rotelle, le mille battaglie per ricominciare. Un infarto. Così se ne è andato martedì ad Auckland, ad appena 40 anni, Jonah Lomu, l’uomo che ha cambiato il rugby. L’All Black più famoso della storia, il n. 11 potente come un rinoceronte e veloce come un ghepardo che nel ’94 a 19 anni aveva debuttato in jersey nero. «Mai visto nulla di simile», disse Rory Underwood, uno dei tre che nella partita più famosa della carriera di Lomu, la semifinale mondiale del 1995 contro l’Inghilterra, provarono a fermare i 196 centimetri per 119 chili dell’Incubo Nero, Jonah the Giant, insomma l’Omaccione che correva i 100 in 10”8, lanciato a meta. Gli altri due erano Will Carling, l’amante di Lady D, e Mike Catt, che fu letteralmente calpestato da Lomu. «Se non altro – ha sempre ricordato – passandomi sopra mi ha reso famoso».
Impossibile da placcare
Quella meta resta uno dei video di rugby più visti su internet, la firma di un fenomeno che non ha mai vinto una Coppa ma che ha rappresentato il treno a cui Ovalia si è appesa per diventare quello che è. Il professionismo stava ingranando, serviva un’icona, l’immagine del futuro. Jonah il gigante era perfetto. Murdock ci costruì attorno il business del Super Rugby, l’Adidas lo pagò 12 milioni di dollari. Li valeva tutti. «Placcare Lomu è come tentare di placcare un tavolo da biliardo» (Bill McLaren, la voce della Bbc). «È un alieno, al suo confronto sembriamo tutti degli scolaretti» (Marcello Cuttitta). «C’è solo un modo per fermarlo: fare in modo che non gli arrivi la palla» (Richard Wallace, nazionale irlandese). Quando è nato Jonah pesava sei chili, papà Senisi e mamma Hepi si erano trasferiti da Tonga a Mangere, il quartiere malfamato di Auckland dove da ragazzino Jonah, che si chiamava ancora Siona, vede morire lo zio decapitato da un machete. Al Wisley College è il più forte nei 100 metri, nei 110 a ostacoli, nel giavellotto e nei salti, a livello giovanile gli inglesi chiedono ai neozelandesi di non schierarlo: perché hanno paura.
I primi sintomi nel ’97
Poi arriva il resto: 37 mete in 63 match con gli All Blacks, 15 ai mondiali (record), la copertina di Time, i contratti, la finale mondiale persa contro il Sudafrica di Mandela. Prima di un test match con l’Italia lo portano in visita alla Ferrari, lui infila il piede nell’abitacolo della rossa di Villeneuve e ne esce un crac. Nel gennaio ’97 la notizia che sciocca la Nuova Zelanda: «Lomu è malato». Da lì inizia una seconda carriera, poi una terza. Nel ’99 è in campo e segna due mete nella semifinale mondiale clamorosamente persa dagli ABs con la Francia. Tira avanti fino al 2003, subisce un trapianto. Ci riprova a Cardiff, poi nel Marseille-Vitrolles, 3ª divisione francese, fino al 2009. Tutto pur di non lasciare il rugby, il suo mondo, nel quale è voluto rimanere fino all’ultimo, spendendosi con gioia e generosità da supereroe anche quando, come durante l’ultima Coppa del Mondo, il male lo costringeva a 6 ore di dialisi al giorno. «Lomu è stato per il rugby quello che Maradona è stato per il calcio», ha twittato Alessandro Del Piero. Solo più sfortunato.
Quei due sono campioni antitetici. Coppi incarnava la fragilità, ma aveva le ali. Lomu, invece, era la forza, ma era spinto da un motore a reazione. Coppi era il seme di soffione portato dal vento, Lomu la palla di cannone che nessuna difesa poteva contenere. Coppi era un cirro bianco nel cielo azzurro, Lomu un nembo scuro che annunciava l’uragano.
Alto 196 centimetri, Lomu pesava 118 chili e correva i cento in 10”8. Un fisico direbbe che esprimeva una quantità di moto che mai si era vista su un campo da rugby. Lomu non si poteva fermare. Nel bestiario di un gioco, che esalta la tecnica, l’intelligenza, la velocità e la forza, era il Rugbyraptor. Un animale nuovo. Micidiale e stupendo.
Le tv hanno rilanciato la meta che segnò all’Inghilterra il 18 giugno 1995 nella semifinale di Coppa del Mondo. È il suo splendido epitafio. Dopo un minuto e mezzo di gioco Graeme Bachof gli diede la palla sul fronte sinistro, subito Lomu accelerò, inutilmente placcato da Tony Underwood e poi da Will Carling e infine dal leggendario Mike Catt, su cui passò come un carroarmato, i piedi come cingoli, andò a cogliere i primi punti. Certo, Lomu ha segnato anche mete più belle, ma questa resta nella storia come il gol che Maradona fece all’Inghilterra il 22 giugno 1986 all’Azteca nei quarti di finale della Coppa del Mondo.
I genitori di Lomu venivano da Tonga e Lomu era travolgente come l’onda dell’oceano. Con 15 mete era il miglior marcatore di Coppa del Mondo, ora uguagliato dal sudafricano Bryan Habana. Era leale, umile, buono. Un Bronzo di Riace di carne, con tendini, muscoli, cuore. Resta nella storia dello sport come Weissmuller, “Tarzan”, re del nuoto. Come Nuvolari o Senna, re dei motori. Come Jim Thorpe, l’atleta maledetto, o come Jesse Owens, l’eroe di Berlino.
Coppi è stato fulminato dalla malaria, Lomu, invece, è stato lavorato per 12 anni dal male. Ha la grandezza del dolore. Per questo la sua uscita di scena non è un sprofondamento. È un’ascensione al cielo.
Tommaso Lorenzini su Libero
«Ka mate! Ka mate!», «È la vita! È la vita!», gridano al cielo gli All Blacks quando attaccano la Haka. E la vita, i rugbisti lo sanno bene, rimbalza strana, come quel pallone ovale che sembra ubriaco e, se una volta ti spalanca il paradiso, la volta dopo può spedirti all’inferno. Lo sapeva Joe Collins, mitico All Black morto a giugno per salvare la figlioletta da un incidente stradale.
Lo sapeva Jonah Lomu, e lo ha provato sulla sua pellaccia, totem del pianeta ovale che a soli 40 anni lascia questa valle di lacrime dopo aver avuto tutto, la fama, le donne (tre mogli), la ricchezza, lui che era nato da un pilone alcolizzato, papà Semisi (morto giovane e che «non mi ha mai dimostrato un briciolo di amore», scrive nell’autobiografia “La mia storia”), in uno dei più violenti sobborghi di Auckland, dove aveva imparato presto a cacciarsi nei guai, finendo nel mirino della polizia già 13enne.
«Ho già vissuto in questa vita più di quanto altri facciano in 6 o 7», ripeteva con quel suo sorriso sempre un po’ malinconico, come presagendo che la rara forma di nefrite che lo aveva colpito nel 1997 lo avrebbe accompagnato presto oltre la linea dell’ultima meta. Il suo medico (e amico) John Mayhew ha annunciato ieri che «un attacco cardiaco, complicazione usuale di simili malattie, si è portato via Jonah». Inutili gli anni di cure, dialisi anche tre volte a settimana, il trapianto di rene. «Questa malattia cerca di distruggerti poco alla volta - spiegava Jonah, chiamato così per via di una zia studiosa della Bibbia -, l’alternativa è una sola: devi stare su col morale. Voglio insegnare ai miei figli Brayley e Dhyreille che non c’è niente di facile, che devi lavorare duro. Non si devono arrendere, perché io non mi arrenderò. Mai».
Stessa filosofia applicata al rugby: «Quando mi arrivava la palla dovevo andare avanti». E come andava avanti. Un metro e 96 centimetri di altezza per 118 chili di peso, 47 di piede, 53 cm di collo e 128 di torace. Un mostro che giocava ala e si muoveva e volava con la velocità di un centometrista (faceva i 100 in 10”7): con la maglia numero 11 degli All Blacks ha segnato 37 mete in 73 partite, 15 nella World Cup, primato eguagliato solo il mese scorso da Brian Habana. Non è mai riuscito a vincere il Mondiale, sconfitto nel 1995 in finale dal Sudafrica (con il giallo dell’intossicazione di massa della Nuova Zelanda prima del match, da molti denunciato come un complotto per favorire la nazionale dell’icona Mandela) e nel 1999 in semifinale dalla Francia, ma Lomu è stato il prototipo del rugbista moderno (muscoli, velocità, esplosività, resistenza) rivoluzionando e trascinando con sé tutto un movimento che proprio grazie a lui ha trasformato anche la propria immagine, affermandosi nel mondo fino ad essere sport di tendenza e lifestyle.
Attestati di stima e cordoglio sono arrivati da ogni dove, anche dal “povero” Mike Catt che Jonah calpestò per segnare durante un Nuova Zelanda-Inghilterra nel 1995 (il video è virale): «Grazie a lui la gente sa chi sono, però quel giorno mi sembrò di essere passato sotto un rullocompressore», esclama l’ex trequarti inglese. Già, perché per evitare un placcaggio ci sono due chance: passare a destra o passare a sinistra. Lomu ha inventato la terza via: passare attraverso. Inutili anche i quattro francesi che gli si aggrapparono contemporaneamente: portò in meta anche loro.
La ricetta per fermarlo? L’inglese David Rees raccontava di averne una: «Quando mi viene addosso, tiro su la merda dal campo, gliela tiro in faccia e lo acceco». «Ma non c’è merda in campo», gli risposero. «Se corre dritto addosso a me, ci sarà».