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 2015  novembre 19 Giovedì calendario

Marco Zappacosta, l’italiano che ha inventato Thumbtack, il sito che dopo un paio d’anni vale già 1,3 miliardi di dollari

DAL NOSTRO INVIATO
SAN FRANCISCO Vivete in America e avete bisogno di un servizio qualunque, un idraulico, ripetizioni di matematica per vostro figlio, uno chef che viene a prepararvi una cena «gourmet» a casa, l’imbianchino per ridipingere la camera dei ragazzi, lezioni di musica? Adesso c’è Thumbtack.
Non una società di servizi né una «directory» tipo Pagine Gialle, ma un «marketplace» capace di individuare gli artigiani e gli altri professionisti indipendenti disposti a prendere l’incarico nei giorni previsti e al prezzo concordato, e di metterli in contatto con i potenziali clienti. Con un sistema di «rating» che ne certifica l’affidabilità.
Molti considerano Thumbtack la faccia buona della nuova economia on demand, il cui volto ufficiale – e molto criticato – è stato fin qui quello di Uber, il servizio di trasporto a domicilio che fa infuriare i tassisti di tutto il mondo.
Ma, soprattutto, la società di San Francisco è una start up di grande successo: decollata davvero nel 2013 – dopo una gestazione di tre anni —, oggi a Thumbtack viene attribuito un valore di 1,3 miliardi di dollari. È quindi, a tutti gli effetti, una «unicorn»: termine con il quale nella Silicon Valley vengono indicate le start up che valgono più di un miliardo.
È anche il primo unicorno italiano: il suo amministratore delegato, l’uomo che l’ha fondata insieme a un socio americano, è Marco Zappacosta. Trentenne «figlio d’arte», Marco è un italiano d’esportazione orgoglioso delle sue origini abruzzesi, anche se pienamente integrato in California.
Incontro Zappacosta nella sede della sua società sulla Nona strada, a pochi isolati dal centro di San Francisco. Pavimenti di legno, biciclette appese alle pareti, un open space nel quale si alternano postazioni di lavoro, poltrone e biliardi. Marco mi racconta che è nato qui perché la madre, ingegnere, ebbe un contratto dall’Ibm in California. Papà Pierluigi la seguì: Phd di informatica a Stanford, poi fondò la Logitech.
Esperienze che sono nel Dna di Zappacosta jr, che, però, ha seguito una strada tutta sua: «Finita l’università, neuroscienze alla Columbia, volevo farmi la mia azienda» racconta. «Già, ma su cosa puntare? Con il mio socio abbiamo puntato sui servizi locali: centinaia di milioni di clienti e trenta milioni di professionisti che ogni anno producono servizi per mille miliardi di dollari. Enorme, eppure qui di innovazione digitale se n’era vista poca: ancora Pagine Gialle e la vecchia pubblicità “classified”».
Bè qualcuno era arrivato, da Yelp a Angie’s List.
«Sì ma loro ti danno soltanto dei nomi, non ti dicono chi è libero in quel momento e interessato a prendere il tuo lavoro. Noi facciamo proprio questo: li mettiamo in contatto, creiamo il mercato».
Sembra una bella favola: successo al primo colpo, chissà quanti italiani freschi di studi vorranno provare a imitarti.
«Non è stato così semplice: abbiamo cominciato nel 2009, ma i primi tentativi non sono andati bene. L’idea era giusta, le modalità sbagliate: non riuscivamo a costruire una comunità ampia. Chiedevamo ai “professional” di pagare un abbonamento di 24 dollari al mese, una strada sbagliata. Ora pagano una tariffa solo quando vogliono proporsi a chi chiede un certo lavoro. Così ha funzionato: oggi sono duecentomila i professionisti che lavorano con Thumbtack. Li abbiamo divisi in centocinquanta categorie di servizi. Abbiamo quattrocento addetti negli Stati Uniti e altri seicento nelle Filippine, che rispondono a chiamate ed email. Sono tanti, ma i nostri clienti sono ovunque: la città che usa di più Thumbtack è Dallas, in Texas. Seguono New York, Los Angeles e Atlanta. San Francisco è soltanto al tredicesimo posto».
Ora anche la politica si interessa a Thumbtack: so che sei stato chiamato anche alla Casa Bianca a illustrare il tuo modello di «business».
«È vero: la politica comincia a capire che questo è il modello economico del futuro. Non dell’economia on demand, ma di tutta l’economia. Fin qui si è guardato soprattutto a Uber, con una certa preoccupazione perché ha rivoluzionato, sì, il modo di spostarsi, ma ha anche creato forti tensioni tra i tassisti. E poi c’è la questione degli autisti che, da contractor, non possono contare sulle protezioni sociali che avrebbero se fossero dipendenti. Da noi questo problema non si pone: lavoriamo con figure professionali che sono comunque indipendenti. I politici vengono per capire: sono andato alla Casa Bianca e qui in California ho visto più volte il senatore democratico Mark Warner. Qualche giorno fa abbiamo avuto anche la visita di un candidato alla Casa Bianca: Jeb Bush».