Corriere della Sera, 19 novembre 2015
L’assalto a rue Corbillon. La donna che si fa saltare in aria, i cinquemila proiettili, la caccia vana a Abu Umar
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI «Arréte toi». Fermati. I due soldati con il dito puntato sul grilletto avanzano verso la Clio azzurra. «Veloce, fai inversione, via subito». Il buio impedisce di vedere i loro volti. L’urlo che accompagna l’ordine perentorio viene coperto da una esplosione, un militare cade a terra, l’altro si volta e torna indietro correndo.
Il fragore degli spari diventa sempre più forte, il volume di fuoco cresce ogni secondo di più. Nel buio si vedono delle scie arancioni che dal tetto del palazzo di fronte e dai blindati che bloccano la strada in basso convergono su due finestre al terzo e ultimo piano di una casa diroccata all’angolo di rue Corbillon. Qualcuno urla. Sul marciapiede di lato una donna piange e corre tenendo in braccio un neonato.
Il display del telefonino indica le 4.10 del mattino. Ma sono già due ore che il centro storico di Saint-Denis è tagliato fuori dal mondo da un cordone fatto di 700 militari. Nessuno può entrare, nessuno può uscire, le duemila persone che vivono nell’isolato sono prigioniere nelle loro case. Il video viene girato da Ibrahim Malachem, il proprietario dell’auto, un ragazzo uscito dall’abitazione della sua fidanzata. Ignaro di quel che accade, sta tornando dalla sua famiglia. All’improvviso mentre guida si accorge di tre puntini rossi che gli brillano sul giubbotto. Sono i mirini a infrarossi dei fucili delle teste di cuoio appostate ovunque nella strada. Adesso quei cinque minuti di filmato sono in vendita al miglior offerente. Per tutto il pomeriggio andrà avanti una sorta di mercato delle immagini riprese dagli abitanti di rue Corbillon.
I terroristi
La sparatoria è di una intensità folle, dura almeno quaranta minuti durante i quali le forze speciali francesi utilizzeranno 5.000 proiettili, come ha poi detto Francois Molins, il procuratore di Parigi. Le sequenze dei frammenti video sono spesso confuse, ma a fare davvero paura, anche dopo, è il rumore di fondo, quello di una battaglia. Si interrompe pochi istanti prima delle 5 con una deflagrazione che scuote anche i caseggiati vicini e le mani che dai balconi reggono i telefonini. «Come una bomba». Arriva dall’interno della casa. Il muro esterno viene sventrato, il pavimento dell’appartamento sotto tiro crolla.
Una delle persone asserragliate si è fatta saltare in aria. È una donna, si chiamava Hasna Ait Boulachem, aveva 28 anni, era la cugina in secondo grado, forse anche la compagna, di Abdelhamid Abaooud, Abu Umar, jihadista belga considerato l’organizzatore della strage di venerdì 13. Tutti pensavano fosse in Siria. Invece con ogni probabilità era qui, a pochi metri in linea d’aria dallo Stade de France che doveva essere il principale teatro di un massacro ancora in corso.
Non era finita con la strage al Bataclan e nei ristoranti, c’erano altri attentati in preparazione, nel quartiere della Defense, e all’aeroporto Charles de Gaulle, altri aspiranti martiri pronti all’uso.
Le schede
Questi giorni non sono stati altro che una corsa contro il tempo. La certezza che ci fossero altri terroristi in giro non si limitava ai due latitanti del commando, ma riguardava il futuro prossimo. Martedì sera gli investigatori ricevono la classica soffiata su Abaooud. Il telefonino recuperato in un cesto della spazzatura vicino al Bataclan, quello dal quale è partito il messaggio «siamo pronti» aveva al suo interno una scheda di organizzazione, così la chiamano gli investigatori. Un numero sconosciuto che permette di ricostruire la rete logistica degli attentatori. I dati raccolti collimano con l’informazione ricevuta dalla polizia di Parigi. A mezzanotte, dopo un vertice al Quai des Orfevrès, il ministero dell’Interno dà il via libera all’operazione.
Il covo in banlieue
La casa al numero 48 di rue Corbillon è un posto da disperati, il rifugio di persone in fuga senza una meta. Il proprietario racconta che gli ospiti sono arrivati tre giorni fa, lui si è limitato a dare loro il permesso di entrare al terzo e ultimo piano, disabitato da anni. «In realtà nell’ultima settimana vedevamo dei movimenti, ma succede spesso» spiega Magid Delah, cameriere di un ristorante italiano rientrato alle due di notte che solo nel tardo pomeriggio potrà tornare nel suo appartamento a metà della via. Se questa è davvero la resa dei conti, sembra quasi normale che avvenga qui, nel cuore della sterminata banlieue che si estende a nord di Parigi, la polveriera sociale dove avvenne la rivolta del 2005, resa celebre da film come «L’odio», e mai titolo fu più appropriato. Saint-Denis è nel cuore del 93, che sulla carta geografica è il numero del Dipartimento ma ormai è un modo di dire, una etichetta che significa racaille, spazzatura umana, per citare una infelice frase pronunciata dall’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy. Sono i quartieri degli immigrati di seconda generazione dove sono cresciuti i fratelli Kouachi e Ahmedi Koulibaly, gli autori dell’attacco a Charlie Hebdo e all’Hypercacher, dove viveva Sami Amimour, uno degli stragisti del Bataclan.
Dal 2012 a oggi sono partiti per la Siria più di mille ragazzi del «93». Come una maledizione, anche per chi ci vive.
Il blitz
Alle otto del mattino la calma è solo apparente. Nel cielo di Saint-Denis volteggiano tre elicotteri. Le scuole sono rimaste chiuse. La circolazione in entrata e in uscita da Parigi è interrotta. Le fermate della metropolitana vengono sigillate, il traffico impazzisce. Sui marciapiedi si riversano donne e bambini, le famiglie evacuate. Alcuni uomini si aggirano in mutande, coperti solo dai teli della Protezione civile che proteggono dall’ipotermia. Le loro testimonianze sono tutte uguali, le esplosioni, la sparatoria, il boato. E poi una specie di rastrellamento fatto dai soldati dell’esercito francese, casa per casa, a buttare fuori tutti. Qualcosa deve ancora accadere.
Alle 8.30 la sparatoria ricomincia, questa volta i tiri verso la casa arrivano da ogni direzione, anche dai palazzi alle sue spalle. Tutto si conclude con un’altra deflagrazione dall’interno, che questa volta distrugge la facciata dell’edificio, facendo cadere mattoni e calcinacci in strada.
Infine il silenzio.
Il bilancio
«Venite a vedere come l’hanno fatta esplodere». Bechir Kessentimi è il titolare di un deposito alle spalle della casa assediata. Dalla soffitta si vedono le finestre divelte. I tiratori scelti che hanno ammazzato un terrorista erano appostati qui. È una delle poche certezze, insieme alla morte della donna. «Dicci dov’è il tuo amico» le urla da lontano una testa di cuoio in un altro video notturno. «Non è il mio amico» è la risposta. Poi salta tutto. Il procuratore Moulins ha parlato di almeno due morti, lasciando intendere che sotto le macerie dovrebbe esserci ancora un cadavere. Ma non c’è stata identificazione, lo stato dei corpi e del palazzo, prossimo al crollo definitivo, non lo consente. Feriti cinque poliziotti, arrestate otto persone. Nelle strade di Saint-Denis i ragazzi rubano i telefonini agli anziani per vendersi i video. Un signore che oppone resistenza viene picchiato. Quasi tutte le macchine su rue Sadi Carnot hanno i vetri sfondati, i militari non hanno chiesto il permesso per i controlli. Anche l’ingresso di una chiesa poco distante è stato divelto da una granata. In place Republique un giovane con la barba lunga arringa una folla di massaie e ragazzi che annuiscono divertiti. «Io sono un estremista perché ci costringono a diventarlo». E indica le camionette che stanno andando via, la bandiera francese che sventola a mezz’asta sul municipio. «Ricordatelo, siamo noi contro di loro». L’odio.