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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

Quattro chiacchiere con Massimiliano Alajmo, lo chef con tre stelle che non va mai in tv. «Preferisco cucinare»

I migliori locali italiani, non di rado, sorprendono il neofita per la posizione geografica e l’ambiente in cui sono inseriti. Le Calandre è uno di questi: se non fosse indicato, proseguireste sulla strada statale 11, senza fermarvi a Sarmeola di Rubano – provincia di Padova – tipica cittadina del Nord-Est dove il traffico sostenuto segnala la (moderata) ripresa. Con tutto il rispetto per la località, ci vogliono talento puro – e quello di Massimiliano Alajmo, per noi è il migliore in Italia –, grande capacità imprenditoriale (quella del fratello Raffaele, come vedremo) e tanta convinzione (con un pizzico di follia) per creare e gestire qui uno dei 50 ristoranti più famosi al mondo (esattamente il 34°) e uno degli otto Tre Stelle Michelin del nostro Paese. Lo diciamo a Massimiliano, executive chef non solo de Le Calandre ma di un bel gruppo in fase di sviluppo, in patria e all’estero. “È un lusso vivere e lavorare qui. Ma è un lusso che si paga: se sei in provincia, devi far meglio e urlare di più perché si accorgano di te. Forse è per questo che diventi più bravo, in qualsiasi settore”.
Difatti, siamo venuti sin qui per intervistarla. Un piacere ma anche una scelta obbligata visto che la si incontra pochissimo in giro per convegni, cene a quattro mani e similari.
«Vero. Non mi sposto da Rubano per due motivi. Il primo è non sono presenzialista di natura e mi piace restare a casa. Il secondo è che tutto il gruppo dipende da quanto facciamo qui, a partire dal centro di ricerca. Quindi faccio una grande selezione di eventi, scelgo solo quelli inderogabili o che abbiano un senso. Per me la priorità è fare il cuoco».
E quindi non andare in televisione. Aveva colpito molto l’intervista rilasciata un anno fa a “Sette” dove andava controcorrente: la cucina in tivù fa male, è diseducativa. Conferma?
«Preciso, così mi capiranno meglio. Trovo che la stragrande maggioranza dei programmi televisivi non parlino di cucina ma facciano spettacolo e creino una corrente a cui si aderisce, spesso senza rendersene conto. Per esempio, non si spiega che prima di essere affascinati da un mondo che richiede tanto sacrificio, bisogna studiare, studiare e ancora studiare. Chi può negare che tanti giovani vengano colpiti in modo sbagliato? Ovvio che non vale solo per la cucina».
Lei segue molto la formazione, sia nei vostri locali sia nella scuola di Creazzo. Come li vede questi giovani in cerca di gloria?
«È cambiato molto, rispetto a quando ho iniziato. Tanto per fare un esempio, ho richieste di stage da parte di laureati in architettura: impensabile un tempo. È un periodo un po’ confuso dove i ragazzi non hanno idee chiare o al contrario sono troppo sicuri di loro stessi. Penso che abbiamo soprattutto una responsabilità etica verso di loro, dobbiamo aiutare a capire cosa vogliono e difatti dico sempre che la nostra scuola apre la mente, crea una visione: non per forza, uno deve fare lo chef».
Detto questo, lei preferisce...
«...chi ha la luce negli occhi. Magari meno competenza, ma entusiasmo a mille. Quasi da ragazzino: tanti stagisti diventano poi collaboratori del gruppo, perché imparano e mantengono la passione».
Comunque lei è un caso a parte. Di solito, i suoi illustri colleghi esibiscono curriculum lunghi e prestigiosi prima di aprire il loro locale. Lei due righe e via.
«Sono stato all’estero solo due anni e mezzo, forse condizionato da quanto sosteneva mio padre: “Non è necessario girare troppo sennò ti viene confusione in testa”. Sono tornato a Rubano e mi ha affidato il locale che aveva già una Stella Michelin, grazie a mia madre Rosa. Avevo poco più di 19 anni ed ero francamente terrorizzato. Lui disse: “Io a venti anni avevo 60 dipendenti, tu non riesci a gestire tre cuochi?”. Detto ciò, se non avessi avuto un ristorante di famiglia, probabilmente sarei passato in tanti posti come i miei colleghi».
Ma davvero era così fissato con la cucina da preferirla alla partita di calcio con gli amici?
«Sì. Ho sempre respirato un fuoco diverso, stando tra i fornelli. Ero la mascotte del locale e sognavo un giorno di indossare la divisa del cuoco».
Cosa ha pensato nel 2002, quando a 28 anni, le assegnarono la terza Stella? Nessuno al mondo ci era riuscito così giovane, tanto che la definirono il Mozart dei fornelli.
«Per prima cosa, mi venne in mente che Mozart era morto a 35 anni e mi preoccupai (ride di gusto, ndr). Poi, la grandissima soddisfazione si è unita a un senso di responsabilità maggiore verso il gruppo, peraltro addolcito dal fatto di avere al mio fianco gente bravissima, a partire da Raffaele. Forse il vero peso è stato capire rapidamente di essere più esposto ai media, alle critiche, ai clienti. In quel periodo, sono iniziati a venire i curiosi per vedere realmente cosa sono capace di fare».
Ansia da prestazione?
«No, semmai lo stimolo per diventare più bravo. Anche adesso ti accorgi subito di quello che noi del settore chiamiamo “il tavolo difficile”, dove c’è chi arriva di cattivo umore, è prevenuto o si aspetta per forza la serata perfetta. Il mio obiettivo è rilassarli, sorprenderli, farli uscire con il sorriso».
Ma cucina ancora veramente?
«Più di prima. Nel senso che ogni piatto di ogni menu per ogni locale viene testato qui nel centro di ricerca e me ne occupo io. Rispetto quanto fanno parecchi amici che in cucina stanno poco ma non ce la farei. Per me è un bisogno mentale e pratico, voglio stare a contatto con la materia e quindi mi auguro di poter spignattare a vita».
Il Quadri a Venezia e il Caffè Stern a Parigi: due sfide vinte. È stata dura?
«Sono storie molto diverse: nel primo caso, c’è stato una lunga trattativa ma in pochi anni abbiamo rilanciato alla grande un locale storico, importante per la città e l’Italia ma che non andava più bene come un tempo. Nel secondo, che mi stava particolarmente a cuore, era un’avventura abbandonata e improvvisamente riapertasi. Al contrario di quanto pensavano molti, siano stati accolti benissimo: c’è grande preparazione a Parigi sia del pubblico sia della critica».
Nel 2009, avete deciso di fare entrare “in famiglia” il private equity Venice spa di Palladio Finanziaria. All’epoca fece scalpore nella ristorazione italiana.
«Mi ricordo bene il momento. Era complicato economicamente, ragionammo tutti insieme e alla fine decidemmo di seguire l’idea di Raffaele che ha l’innata capacità di vedere sempre avanti. Ha funzionato, tanti con il tempo ci hanno seguito».
Il rapporto con suo fratello è un esempio per il settore.
«Non siamo i soli. Certo, lui è sempre stato fondamentale nella mia vita. Attraverso una mediazione continua, coltiviamo la stessa visione. Ed è il mio primo critico, lui cucina molto bene e ha un punto di vista feroce verso i nuovi piatti: questo mi permette di andare oltre la normalità, la banalità».
È rimasta storica, tra gli addetti ai lavori, una pièce interpretata da voi a Identità Golose nel 2014. Un dialogo illuminista sulla fluidità, in particolare sull’acqua.
«Lo so. Non venne capito da tutti e comunque si pensò fosse preparato. Invece il copione era andare a braccio, con Raffaele nella sua parte migliore: l’avvocato del Diavolo. Fluidità è il titolo del nostro secondo libro e l’acqua ne è protagonista. Per me resta il simbolo della capacità di modificarsi, di cambiare. Tutto fluisce, muta, non è finito, diverso da quello che sembra...».
Mi pare stia dando ragione a quanti sostengono che Massimiliano Alajmo pensi troppo, sia un intellettuale della cucina e non sia cuoco d’istinto.
«L’istintività per me è “reclutare” pensieri che sono sedimentati, azioni che appartengono a qualcosa vissuto in precedenza. In realtà, io sono molto istintivo ma non mi basta cucinare bene, voglio che il piatto non finisca quando è servito al tavolo. Cerco di scavare nella materia, questa è la mia fissa. Perché al di là delle forme, della consistenza e dei colori, ogni materia ha un punto centrale e se io lo trovo ho capito il mondo».
Citiamo un suo pensiero: io preferisco non cercare distrazioni e frequentare la materia.
«...e abbandonarsi a essa. La tecnica e la sovrastruttura non sono digeribili, la materia sì. Al cliente non chiedo partecipazione cerebrale, perché la fatica devo farla io a monte. Devo entrarti in bocca senza spiegarti nulla, anche il nome del piatto se è il caso (difatti, Alajmo non esce mai in sala dopo aver salutato i clienti prima del servizio, dicendo “buon divertimento”, ndr). Quando un cuoco dice che un suo piatto non viene capito, in realtà non è riuscito a comunicare dentro la sua visione».
In sintesi, la sua cucina è?
«Fluida. Oggi, la cucina è spesso vissuta come un tecnicismo che diventa il fine ma per me è solo un mezzo. Sto inseguendo sempre di più la sensorialità per fa vivere al cliente tre-quattro ore di grandi emozioni, utilizzando i cinque sensi. Magari facendolo entrare nel sesto».
Immagino che abbia sentito parlare di Sublimotion, il nuovo locale di Paco Roncero, allievo di Adrià, per dodici clienti – che pagano 1600 euro a testa – all’interno dell’Hard Rock Hotel di Ibiza. Cenano in una realtà virtuale fatta di immagini, musica, giochi di luce, profumi.
«Sì, qualcosa di simile a Ultraviolet. Ci sono margini enormi sulla multisensorialità legata al cibo, ci si può accontentare di mangiare una mela: c’è tatto, profumo e sapore, il rumore quando la addenti. O lavorarci per l’alta cucina: anche noi abbiamo fatto qualcosa vedi due piatti – Sguardo Interiore e Immersione – che servivamo con dei tappi da mettersi alle orecchie per concentrare il cliente sulla masticazione. Ora, tutta una cena su questi concetti sarà eccessiva però qualche idea mi convince».
Alajmo, cosa le piace della cucina italiana?
«Delle cucine italiane».
Pardon, allora cosa le piace e cosa non le piace?
«Adoro la forza impressionante delle singole cucine, che grazie alla contaminazione storica sono diventate ricchissime. Da noi si possono mangiare piatti vicini a quelli nord-europei come piatti di origine araba. Per questo, andrebbe preservato il patrimonio di prodotti, rituali, ricette – canalizzato in ottica contemporanea – che ha consentito questo fenomeno. Se ne parla troppo poco, per me».
È questo è l’aspetto che le dà più fastidio?
«No. Trovo che ci vorrebbe maggior orgoglio nazionale, unirsi di più darebbe paradossalmente più valore alle nostre diversità. Non voglio dire che dobbiamo restare insensibili alle culture straniere ma non darei priorità al wasabi: va benissimo, ma sono più interessanti i peperoni etruschi».
Forse è il bisogno costante di novità, anche in cucina.
«Il nuovo è celebrato sempre come una conquista, ma in cucina non è detto che sia buono. Ripetere un piatto può regalare le stesse emozioni, forse superiori. Per me, la proiezione sul futuro non è la novità fine a se stessa ma la profondità».
È quanto ha fatto con la pizza al vapore, suscitando un discreto casino?
«Era un lavoro serio, di ricerca vera. E non una provocazione per cercare notorietà. Non ho mai detto che la pizza napoletana fosse cattiva, volevo semplicemente riflettere sui punti critici e migliorarla ma questo ha dato fastidio. Tanto più che non ho ricevuto critiche solo folcloristiche e questo mi è spiaciuto. Detto che l’impegno ha portato a un valido risultato, brevettato, è stata la conferma che il limite nazionale è non avere coraggio e una visione più aperta sulla tradizione».
Sul sito del gruppo c’è una sua frase “La cucina deve spogliarsi dell’inutile per ritrovare la stessa innocenza che il bimbo ha nel raccontare il suo piccolo mondo”. Pedagogia culinaria?
«Per me la cucina è il tentativo di tornare e far tornare bambini, ritrovando quel disegno che abbiamo fatto un po’ tutti. Ha presente? La casa, la famiglia, l’albero, il sole, la nuvola, la strada che finisce nel vuoto... C’è tutto e io cerco di ripeterlo nella mia cucina. Ma per riuscirci, bisogna spogliarsi il più possibile delle sovrastrutture e delle maschere: ci vuole fluidità, scusi se lo ripeto, e trovare l’essenza della materia, quella che ci dà energia».
Alajmo, lo sa cosa ci ha detto un giorno Gualtiero Marchesi? Il cuoco è un bimbo che gioca tutta la vita a svolgere un mestiere da grande. Che ne pensa?
«Ha visto il simbolo sulla mia giacca? (un disegno stilizzato di bambino al posto del nome come è tipico dei cuochi, ndr). Ecco, qui da noi, c’è l’attitudine a essere bambini, di cercare l’origine delle cose. Se uno non si diverte a fare il cuoco, non sarà mai uno di noi».