Style - il Giornale, 18 novembre 2015
Tindaro De Luca, l’ultimo dei grandi sarti
Guarda dall’alto il quadrilatero della moda milanese, dal suo atelier al primo piano di un antico palazzo del centro dove, immerso tra almeno 4000 tagli di stoffa, tra i più rari e pregiati che si possano trovare in circolazione, «serve» con passione vip, potenti della terra o, semplicemente, persone che amino vestirsi bene. Il maestro Tindaro De Luca è l’ultimo dei grandi sarti, uno di quelli che può dire di costruire un abito interamente a mano, senza trucco e senza inganno. Il suo studio, grazie a lui, è il tempio dell’eleganza su misura. «Mi fa piacere pensare di essere l’ultimo dei grandi sarti – dice con l’ironia del siciliano bon vivantche lo contraddistingue – dopo la mia generazione non c’è più nessuno che fa abiti per vestire la persona e non le persone, come fa la confezione».
E qual è il segreto per vestire la persona?
«La passione e la dedizione. Io sono allievo di Giovanni Risuglia, grande maestro siciliano e ho appreso esattamente il suo sistema di lavoro. Lui stimava molto il mio modo di lavorare e mi diceva: “Tindaro, io e te viviamo male, perché se facciamo un lavoro che non è fatto bene soffriamo”. Mi raccontava spesso di aver fatto un abito ad un cliente suo vicino di casa: questi era molto soddisfatto, ma a Risuglia non piaceva il risultato e si augurò persino che il cliente morisse per non vedere più quell’abito. Capito come siamo fatti?».
Quindi il sarto è una missione.
«Sì, io faccio il mio lavoro da artigiano che è quello di continuare la tradizione dei grandi sarti. Ogni abito è una storia, è un confrontarsi con la persona, non è un lavoro in serie. Siamo io e tre metri e mezzo di stoffa su un tavolo che ci sfidiamo e ci guardiamo: da lì deve venire fuori il vestito».
E poi cosa scatta?
«Non tutti sanno che il segreto dell’abito sta in 48 centimetri. Un abito si fa in 48 centimetri; i 24 centimetri che vanno dal collo al giro per la giacca, e quelli del cavallo per il pantalone. Attorno a questo ruota tutto il resto, lunghezza, larghezza, misura del fondo e della manica. Il segreto di un abito sta tutto in cinque linee orizzontali, lì si vede il maestro. Poi naturalmente c’è tutto il resto: cosa importantissima è l’apiombo della giacca al punto dell’incollatura. Altra cosa importante è il “giro piccolo” perché l’abito abbia una sua personalità. Certo è molto più facile fare la giacca con il “giro grande”, ma quello lo lasciamo alla confezione e agli sprovveduti.
Lei cosa pensa degli abiti confezionati?
«Ce ne sono alcuni bellissimi, molto più belli di quelli di certi sedicenti sarti. Certo io amo dire che la confezione è per chi si vuole coprire, il sarto per chi si vuole vestire. Paragonare il vero sarto con la confezione è come paragonare un monopattino e una Rolls Royce».
Molto severo...
«Il problema è che una persona può avere una taglia 48 di torace ed essere alta 1.80, mentre un’altra può essere una 48 alta 1.60. La confezione cosa fa? Prende un 48 e lo adatta alla mia altezza, lo accorcia, lo allunga, ma sulla base di una cosa già fatta. E poi c’è una cosa che mi fa imbestialire; i negozi che scrivono sugli abiti “fatto a mano” o “sartoriale”. Vorrei che mi spiegassero cosa vuol dire. Fatto a mano dove? E da chi? Non ho mai visto una cosa fatta con i piedi. E sartoriale perché? Ha mai visto un ago e un filo? Sono definizioni che non rispettano la verità e che non vogliono dire nulla».
E lei?
«La mia forza è saper fare l’abito dalla A alla Z. Sono rimasto l’unico per qualità di costruzione dell’abito. Ho un sistema che non ha nessuno. Io non predico la quantità, l’artigiano deve competere sulla qualità assoluta. Il mio vestito è tutto fatto a mano, di cucito a macchina, con una antica Singer che ha più di settant’anni, ci sono soltanto le gambe dei pantaloni. Ma più che la confezione mi fanno arrabbiare certi sedicenti sarti».
Cioè?
«Ci sono alcuni che sanno fare bene le pubbliche relazioni, poi prendono dei lavoranti qualunque e dicono di fare gli abiti su misura. Quelli sono dei millantatori, non sono artigiani, e ce ne sono tanti. Ma anche lì la qualità si vede subito. Un mio vecchio cliente un giorno ha provato uno di questi sedicenti sarti ma non era convinto. Mi ha portato l’abito e mi ha detto: “Cosa facciamo?”. E io gli ho risposto: si possono fare due cose, lo butta lei o lo butto io? Senza parlare di quelli, per esempio a Hong Kong, che fanno l’abito in un giorno solo».
Saranno carissimi i suoi vestiti...
«A parte che certi abiti comprati in negozi di marchi celebri, e non parlo dei soliti stilisti, costano diverse migliaia di euro, il mio abito costa per il lavoro che c’è dentro. La stoffa non incide quasi per nulla; contrariamente a ciò che pensano molti costa 60-70 euro al metro e poi io ne ho moltissima qui nel mio atelier. Ciò che costa è il lavoro. Per la fattura di un abito ci vogliono 60 ore mentre la confezione adesso ce ne metterà tre o quattro a dir tanto. Per fare un cappotto ci vogliono 95 ore e questo ha un costo. Poi la confezione ha tante spese da sostenere, il marketing, i rappresentanti, il nostro invece è tutto lavoro manuale».
E com’è il mondo della sartoria oggi?
«Mancano i maestri e le maestranze. Tutti prendono la strada più veloce. Sento dire di un abito “che bel taglio”, ma a tagliare impara chiunque in due settimane perché è geometria, è una formula che può ripetere chiunque. Ma poi quelle geometrie le devi mettere addosso alle persone. Se lo stilista non avesse il modellista il suo disegno resterebbe un pezzo di carta. Uno può fare il disegno più bello del mondo ma poi deve saperlo assemblare».
Il suo pubblico è composto di gente importante...
«Sì ma di questo non voglio parlare. Piuttosto il cliente deve essere esigente. Un cliente a cui va bene tutto non mi convince, non aiuta a crescere, deve avere le sue idee precise e sfidare il sarto a metterle in pratica. Le dirò, sono sempre meno i clienti che hanno la vera cultura del vestire eppure, glielo dico io, l’abito fa il monaco. Il monaco si riconosce proprio dall’abito».
Qualche trucco per l’eleganza?
«A mio parere è sempre meglio usare tessuti di una certa consistenza. Non mi piacciono i tessuti leggeri, ne nascono dei vestitelli. L’uomo elegante usa la flanella, il gessato pesante, d’estate il drill di cotone, il solaro, il lino irlandese, i freschi 3 capi o la cosiddetta tela vaticana. L’abito deve avere personalità e i tessuti leggeri non ne hanno».
Qual è la molla che la spinge a continuare?
«Io mi metto sempre in discussione, l’artigiano non deve mai fermarsi. Il mio è un mestiere che rischia di esaurirsi. Come meccanico, oggi è tutto computerizzato, non c’è più nessuno che aggiusta un carburatore con il cacciavite. Così io sono contento quando la stoffa che ho maneggiato io vive e circola attraverso un’altra persona. Amo lavorare sempre, anche la domenica, mentre ascolto le partite di calcio e ascolto le poesie di Leopardi recitate da Arnoldo Foà».