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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

Dopo gli attentati di Parigi, il petrolio è tornato ai minimi da agosto, con il Brent a 44 dollari al barile. E potrebbe calare ancora, se la minaccia del terrorismo frenerà il turismo e i viaggi aerei

Dopo la breve impennata di lunedì, il petrolio è tornato a puntare con decisione verso i minimi di fine agosto, quando era sceso a livelli che non toccava dalla recessione globale: la seduta di ieri si è conclusa con un ribasso di oltre il 2%, che ha riportato il Brent per consegna gennaio sotto 44 dollari al barile, cancellando del tutto la reazione ai raid militari con cui Francia e Stati Uniti hanno risposto agli attentati di Parigi. Stessa parabola per il greggio americano Wti: la prima scadenza contrattuale (dicembre) è di nuovo a 40,67 $/barile e minaccia di sfondare presto il supporto posto a 40 dollari.
Sul fronte geopolitico le tensioni si sono tutt’altro che attenuate. Anzi. I ministri della Difesa dell’Unione europea, riuniti ieri a Bruxelles, hanno risposto all’unanimità alla richiesta francese di collaborare all’intervento contro l’Isis, approvando la cosiddetta clausola di difesa collettiva: una presa di posizione che potrebbe estendere il perimetro delle operazioni, come ha suggerito esplicitamente il ministro della Difesa francese Yves le Drian, con «un maggiore supporto in Siria, Iraq, Africa». Il rinnovato vigore ribassista del petrolio non ha tuttavia sorpreso gli analisti. L’esperienza dell’11 settembre 2001 ha insegnato che la minaccia del terrorismo può frenare il turismo e i viaggi aerei, facendo calare la domanda di combustibili, e in generale provocare un danno all’economia globale: nei due mesi successivi all’attacco alle Torri Gemelle il barile crollò da circa 30 a meno di 17 dollari. Oggi poi i fondamentali del petrolio sono davvero deboli. Solo nei Paesi Ocse a fine settembre si erano accumulati 3 miliardi di barili di scorte tra greggio e prodotti raffinati, una quantità record che secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) rappresenta «un cuscinetto senza precedenti contro eventuali choc geopolitici o inattese interruzioni dell’offerta».
Nonostante la produzione non Opec abbia iniziato a calare in reazione al crollo delle quotazioni petrolifere (che supera il 60% rispetto al picco dell’estate 2014), l’eccesso di offerta continua tuttora a sfiorare 2 milioni di barili al giorno e di fronte a tanta abbondanza il mercato non percepisce come allarmante l’escalation delle operazioni miliari contro l’Isis. La Siria, che anni fa produceva 600mila barili al giorno, oggi non ne estrae più di 25mila, che per di più servono in gran parte a finanziare il terrorismo islamico. Diverso è il caso dell’Iraq, potenza petrolifera da 4 milioni di barili al giorno, ma gli esperti assicurano – in modo evidentemente convincente – che i principali impianti estrattivi, trovandosi nel Sud sciita del Paese, sono al riparo da ogni rischio.
Di fronte alla continua debolezza del greggio (favorita anche dal rafforzamento del dollaro) ciò che davvero colpisce è invece la ripresa delle quotazioni di Borsa delle compagnie petrolifere: i titoli del comparto ieri hanno continuato a correre, compresa l’Eni, in progresso di oltre il 3 per cento.
In parte si è probabilmente trattato di ricoperture da parte di fondi che avevano venduto allo scoperto. Ma ci sono anche investitori che stanno riscoprendo il settore, convinti che abbia la possibilità di ripartire. «Queste società hanno il potenziale di trasformarsi in macchine da soldi – sostiene James Sym, portfolio manager di Schroders – È?sempre più chiaro che in modo perverso potrebbero addirittura beneficiare del ribasso del petrolio». Il crollo degli utili ha in effetti spinto a fare grandi pulizie di bilancio, a cancellare investimenti onerosi e ad abbattere i costi operativi (a scapito di fornitori e società di servizi). Ma soprattutto, resta l’attrazione irresistibile è quella dei dividendi, che solo il Cane a sei zampe ha avuto il coraggio di ridurre. Le quattro supermajors – ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron e Bp – nei primi nove mesi dell’anno hanno staccato cedole per 28 miliardi di $, calcola il Wall Street Journal, quasi il 10% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Questo nonostante gli utili siano calati oltre il 70 per cento.